Gli Stati Uniti di Donald Trump e il disordine globale

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L’elezione di Donald Trump conferma la regola aurea dell’anno elettorale: per chi è già al potere (incumbent) è sempre più difficile mantenere il consenso. La popolazione desidera cambiamento, e ciò è particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove l’aumento del costo della vita ha giocato a favore dello sfidante. In un sistema elettorale dove chi vince prende tutto, il mandato ricevuto da Donald Trump – grazie alla vittoria del voto popolare e al controllo dei due rami del Congresso – appare più solido rispetto al 2016. Resta però da vedere, già dalle elezioni di midterm del 2026, quanto la sua Presidenza riuscirà a soddisfare le attese.

La coalizione di Trump si basa su unalleanza inedita – o forse su un matrimonio di convenienza – tra il nuovo capitalismo tecnologico e la politica, simbolicamente rappresentata dal ruolo di Elon Musk. Tuttavia, non è chiaro quanto durerà questo connubio. A questa alleanza si aggiunge una parte della Silicon Valley, che nel 2016 era stata molto più prudente; una fetta della finanza, attratta dai tagli fiscali; lestablishment tradizionale legato al petrolio e allo shale gas, dominante nel settore energetico; e una parte della vecchia manifattura, che spera in una reindustrializzazione fondata su condizioni favorevoli piuttosto che su sussidi statali

Alla base, Trump è riuscito invece a conquistare la working class disagiata, non solo bianca, ma ha fatto breccia anche fra le minoranze, ispaniche in particolare. È una coalizione trasversale e orizzontale. Il livello di istruzione è il nuovo, vero, “divide” politico. E finisce la tesi secondo cui i democratici avrebbero una maggioranza demografica necessaria. Non cambia solo il potere, cambierà il suo esercizio. L’intenzione esplicita di Trump è di espandere la presidenza, con le sue prerogative, riducendo in modo drastico il peso del governo federale (anche attraverso i tagli affidati al Doge, il nuovo Dipartimento sull’efficienza del governo guidato da Elon Musk e Vivek Ramaswamy).

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Avremo quindi, almeno nelle intenzioni di partenza, una iper-presidenza forte, un potere legislativo debole e grande autonomia agli Stati. Non è lo “small government” di tipo reaganiano. Siamo di fronte a una visione quasi confederale, ma corretta dall’aumento del peso della Presidenza. Mentre si profila uno scontro voluto con il deep state, in particolare nel Pentagono, nella National Intelligence e nel Dipartimento della Giustizia.

La domanda vera è fino a che punto le istituzioni (il Senato, che vuole mantenere la sua prerogativa di esaminare le nomine; la Fed, dove Jay Powell resterà in carica fino a maggio del 2026) eserciteranno un ruolo di bilanciamento. Insieme a quella parte del mondo economico che teme un eccesso di chiusura commerciale dell’America. In ogni caso, è prevedibile un forte grado di fibrillazione interna. L’America sarà ancora divisa.

Passiamo al quadro internazionale. Trump appare in fondo un sintomo, più che la causa, di un cambio di paradigma. È vero che il commercio internazionale ha tenuto nei numeri, grazie anche al ruolo degli Stati definiti connettori (Vietnam, Messico); ma dazi e tariffe sono in aumento da anni. L’America di Trump rende più netta questa traiettoria, che si collega – in campo geopolitico – alla competizione fra Cina e Stati Uniti, giocata anzitutto sul predominio tecnologico. Il nuovo presidente americano rigetta in modo esplicito gli oneri del vecchio ordine liberale – in un certo senso, l’Impero torna ad essere Repubblica.

E annuncia una raffica di tariffe, contro la Cina in particolare ma sulle importazioni più in generale. Vedremo alla prova dei fatti come e quanto verranno applicate; ma questo approccio avrà comunque delle conseguenze per l’Europa, che è molto più dipendente, di quanto non siano gli Stati Uniti, dal commercio globale. E che rischia di essere, di fronte alla sfida tecnologica attraverso il Pacifico, un potenziale perdente.

In politica estera, l’idea di Trump è che l’America sia in grado di esercitare un potere dominante attraverso la propria forza comparativa, in campo energetico, militare e tecnologico. L’America non avrà bisogno di esercitare direttamente la forza, con interventi militari all’estero; la farà pesare (secondo la teoria della “pace attraverso la forza”).

E lo farà anche minacciando di “togliersi” dagli accordi internazionali (uscita certa dagli Accordi di Parigi sul clima, crisi del Wto): l’America diventa, se vogliamo usare questa espressione, una grande potenza intermittente. È una linea nazionalista dura, più che isolazionista. Tiene conto dei limiti delle risorse americane, scegliendo delle priorità: il contenimento della Cina anzitutto, cosa che implica anche il tentativo di staccare Mosca da Pechino.

Se la linea di Joe Biden era di indebolire la Russia dissanguandola, e se la sua chiave di lettura del mondo era lo scontro fra democrazie e autocrazie, Trump tenterà invece di rompere il rapporto fra autocrazie, chiudendo la partita ucraina. E tenterà di regolare, con Israele e i paesi del Golfo, i conti con l’Iran. Per poi concentrarsi sul fronte indo-pacifico.

Le nomine di Marco Rubio a Segretario di Stato e di Mike Waltz come National Security Advisor confermano questa impostazione, che implica, tra l’altro, una relativa perdita di centralità dell’Europa. Questo si combina con la pressione americana – già di lunga data, ma che verrà rafforzata da Trump – per una Nato molto più affidata alla spesa militare europea. Una sorta di Nato 3.0, con meno America. Come tattica, la Casa Bianca sfrutterà il fattore imprevedibilità, che spaventa sia gli alleati che i rivali. Tuttavia, non è detto che questa strategia funzionerà.

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In sintesi, con Trump 2 si delinea una diversa configurazione degli equilibri politici: fondata su una forte deregulation interna (che potrebbe portare vantaggi per l’economia americana) e su un aumento del protezionismo all’esterno (che invece rischia di provocare problemi, tra cui un possibile effetto inflattivo).

Nella visione America-first rientra anche la energy dominance. Trump ha nominato Chris Wright a Segretario dell’Energia e Doug Burgum (figura forse più influente) a capo del Consiglio per l’Energia, con l’obiettivo di rilanciare le fonti fossili. L’idea è di puntare in modo deciso a un aumento della produzione di petrolio e a nuove licenze per il gas naturale liquefatto (Lng). Gli impatti – sui prezzi e sui mercati energetici – saranno rilevanti.

Difficile dire, tuttavia, quanto questa strategia peserà sul settore americano delle rinnovabili. Secondo una scuola di pensiero, è improbabile che Trump revochi i sussidi per gli investimenti infrastrutturali (previsti dall’Inflation Reduction Act), che hanno portato benefici a Stati “rossi” come il Texas.

Tariffe, gestione del fattore Cina, divergenza regolatoria e costi dell’energia tenderanno a complicare i rapporti fra Europa e Stati Uniti. E renderanno più difficile il catching up tecnologico dell’Europa. Trump, naturalmente, non è la ragione del ritardo accumulato dall’Ue: lo rende solo più esplicito.

Si confrontano due tesi: secondo la prima, l’effetto Trump spingerà gli europei a unirsi, per affrontare una trattativa commerciale complicata (il mantra che si sente a Bruxelles è “meglio trattare che rispondere con una guerra commerciale”) e per aumentare il peso europeo nella Nato.

Ma c’è anche una tesi diversa, secondo cui gli europei tenderanno invece a dividersi, ricercando con Washington rapporti bilaterali preferenziali e non riuscendo, nel loro insieme, ad esercitare un vero peso. L’Italia ha dalla sua la carta dell’affinità politica e della stabilità interna; ha però il problema di una spesa militare insufficiente (1,5 percento del PIL) e di un surplus commerciale importante verso l’America (circa quaranta miliardi di dollari). C’è poi chi sostiene che la crisi interna a Francia e Germania indebolisca anche la Commissione; e chi invece pensa che la nuova Commissione abbia proprio per questo maggiore spazio di azione.

L’unica certezza, purtroppo, è che l’Europa arriva impreparata a un appuntamento invece prevedibile: l’epilogo della vecchia era transatlantica e l’inizio di un gioco internazionale più duro, in cui commercio e sicurezza si combinano. Un gioco da carnivori, per un’Europa ancora troppo erbivora.

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LEuropa, per competere in questo nuovo contesto, dovrà affrontare sfide complesse. La prima riguarda l’autonomia strategica, che richiede investimenti maggiori nella difesa, nella tecnologia e nell’energia. La seconda è legata alla necessità di un fronte comune fra gli Stati membri, evitando frammentazioni che potrebbero indebolirla ulteriormente nei rapporti con gli Stati Uniti e la Cina.

In questo scenario, sarà cruciale per l’Unione Europea sfruttare le sue risorse e il suo peso economico per rafforzare la coesione interna e negoziare da una posizione di forza. Tuttavia, il rischio è che, senza un cambio di passo, lEuropa rimanga un attore marginale in un sistema internazionale sempre più competitivo e dominato da logiche di potere.

Marta Dassù è Senior Advisor European Affairs dell’Aspen Institute e direttrice di Aspenia. Ha ricoperto diverse cariche politiche, tra cui quella di viceministro degli Affari esteri nel Governo Letta.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 62 di We – World Energy, il magazine di Eni.



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