Mattarella, il presidente che ha addomesticato i barbari dell’antipolitica

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Conto e carta

difficile da pignorare

 


A dieci anni dalla sua elezione, pubblichiamo la prima puntata di una serie di articoli dedicati a Sergio Mattarella

Occorre rileggerlo quel discorso di Sergio Mattarella del lontano 31 gennaio del 2015, appena eletto al Colle per la prima volta. Dieci anni fa. Era l’Italia ruggente del renzismo e del patto del Nazareno, che proprio sul Quirinale si ruppe. Dell’establishment che, con logiche tradizionali, si illudeva di arginare il populismo. Quello montante di chi voleva aprire il Parlamento “come una scatola di tonno”, portatore di una rivolta, scomposta e vitale, che di quel sistema minava linguaggio, identità, legittimazione. Quello, allora minoritario, di Salvini, che di Mattarella ne avrebbe dati due per avere in cambio un Putin, e di Giorgia Meloni a capo di una ridotta no-Euro.

Mattarella è il presidente che viene eletto e opererà all’incrocio dei venti, proprio lì dove si rischia di bruciarsi vivi: da un lato il “sistema”, impermeabile al “fuori”, dall’altro i prodromi del decennio sull’ottovolante del populismo, che poi sarebbe diventato sistema. Accompagna cioè e gestisce, per dirla col professor Giovanni Orsina, le successive ondate di “romanizzazione dei barbari” dai Cinque stelle alla Lega fino a Giorgia Meloni che però l’adattamento ai fondamentali lo ha capito da sola, prima e meglio di altri.

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

L’anno dopo l’elezione al Colle, sull’ottovolante si salì con la Brexit, il primo Trump, il referendum costituzionale in Italia: un “no” più grande di Renzi, dentro cui c’era qualcosa di più del rifiuto della riforma del bicameralismo. C’era, anche in Italia, la rivolta dei forgotten men, la stessa sfiducia, lo stesso distacco che opera, da allora ad oggi, dal Trump 1 al Trump 2, nelle democrazie occidentali. E la richiesta di rimettere al centro il popolo vero, con la sua rabbia, e non le sue rappresentazioni immaginarie. Insomma, il tema della ricostruzione della politica nell’era del suo rifiuto.

In quel discorso di Mattarella, con antica sapienza politica, c’è già tutta la consapevolezza del tempo nuovo e del “rifiuto”. Consapevolezza che spiega il rapporto che avrebbe costruito col Paese. Rispetto ai limiti delle élite di allora, è un cambio di paradigma. Per Carlo Azeglio Ciampi quel cuore è stata, nell’Italia minacciata dalle pulsioni secessioniste, la ricostruzione dell’unità della nazione. Per Napolitano, nell’Italia del bipolarismo scomposto e poi morente, la ricostruzione istituzionale del Paese, da realizzare con le riforme. Per Mattarella, nell’Italia della protesta, è la ricostruzione sociale del Paese. Che, in un filo di continuità, diventerà appello ai “costruttori”, quando il Paese e la sua classe dirigente saranno chiamati all’appuntamento con la Storia, nel pieno di una pandemia inafferrabile e di una recessione implacabile.

Il popolo, declinato non come sociologia pietrificata delle classi, ma “persone” in carne e ossa, sofferenze, bisogni, problemi, in un robusto filo di continuità dal primo intervento all’ultimo discorso di Capodanno. Si pone cioè davanti alla crisi dal basso con postura tipica del cattolicesimo democratico, senza pedagogia, moniti, bacchettate, facendo leva su ciò che di buono c’è in un Paese migliore di come si rappresenta, anche nel racconto cattivista alla moda. E sollecita la politica, chiamata a questa ricostruzione, ad avere al centro la ricostruzione di sé. Rompendo la barriera dell’arrocco.

Qui c’è la discontinuità più profonda col suo predecessore. Per Napolitano l’antipolitica, variamente declinata da “banditori di smisurate speranze”, era una “patologia eversiva”, quindi tale da mettere a rischio la tenuta “del” sistema che, per rispondere, doveva autoriformarsi. Per Mattarella, l’approccio è inclusivo, moroteo. Il presidente che, in quel primo discorso, non demonizza i barbari ma sottolinea, rivolgendosi ai Cinque stelle, quanto i giovani parlamentari siano portatori di “critica, indignazione e voglia di cambiare”, è lo stesso che gestisce il post voto del 2018 con spirito maieutico, nonostante le intemperanze di chi ne chiedeva l’impeachment: consultazioni eterne di oltre due mesi, esplorazioni, pazienza fino alla nascita del governo gialloverde.

Sarà poi la storia complessa, a tratti drammatica, di un’inclusione ma anche di un indirizzo, di un arbitro che non altera il risultato della partita, ma che sa anche cacciare il cartellino rosso, ove esercita appieno le prerogative del suo mandato impedendo la nomina a ministro di Paolo Savona, il teorico del piano B per l’uscita dall’euro. Alla fine, quel governo nascerà: all’Economia c’è Giovanni Tria, agli Esteri Enzo Moavero Milanesi, che era stato agli Affari europei con Monti e Letta. E quel governo varerà, tra mille travagli, una finanziaria che non deraglia e, nei limiti del possibile, resta nei binari della sua collocazione internazionale.

È la storia della difficile conciliazione tra istituzioni e populismo prima pentastellato, poi leghista. La sua costituzionalizzazione, col Colle chiamato ad avere un ruolo centrale di tutela dell’interesse nazionale sui fondamentali atlantici ed europei, e di equilibrio dei poteri, nell’ambito di una legislatura tra le più pazze della storia d’Italia: tre governi (Conte 1, Conte 2 e Draghi), negli anni del disordine mondiale tra guerre pandemia, e rielezione del capo dello Stato. Il presidente della “normalità” si trova, di nuovo, a gestire un’anomalia e a incarnare un’eccezione, davanti alla bancarotta dei partiti. Nell’Italia concentrata sul piano vaccinale e su come riaprire le imprese tra un’ondata e l’altra, un sistema politico al collasso chiede chi le elezioni chi il bizantinismo del Conte ter, ed è costretto a spedire Mario Draghi alle Camere, per un nuovo governo del presidente. Sono gli stessi partiti che salgono al Colle col cappello in mano pregandolo di rimanere, dopo il reality show delle ambizioni e il rito cannibale che fagocitò una ridda di nomi. Altro che ritorno della politica. Che poi è tornata solo in parte. Dopo tanti trasformismi, ora c’è un “governo eletto dal popolo” e Giorgia Meloni sui fondamentali non ha deragliato. Però resta il Paese da ricucire e la politica da ricostruire nell’era in cui quelli che non votano sono il primo partito, specchio di una discussione pubblica e di un conflitto politico spesso inconcludente e piuttosto modesto. Rileggendo quel discorso, in fondo, siamo ancora lì.



Source link

Carta di credito con fido

Procedura celere

 

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link