IL GIORNO DELLA MEMORIA: IL FASCISMO “LUSTRASCARPE DELLA GERMANIA”

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Dario Gedolaro

In questi giorni in cui si ricorda la tragedia dell’Olocausto non è storicamente sbagliato riflettere se e quali furono le differenze in tema di antisemitismo fra la Germania nazista e l’Italia fascista. Perché non bisogna fare di ogni erba un fascio, soprattutto quando si tirano in ballo le responsabilità di un popolo. Non è per autoassolversi, perché di responsabilità ve ne furono, ma sicuramente non ci fu quella complicità o acquiescenza corale di cui si macchiò il popolo tedesco.

Benito Mussolini

Diciamo subito che l’antisemitismo fu uno dei più gravi errori politici di Benito Mussolini, che gli alienò il consenso della grande maggioranza degli italiani. Fino ad allora il dissenso era stato abbastanza facilmente messo a tacere e sarebbe troppo comodo pensare che, come scrisse Antonio Gramsci, il fascismo rappresentasse “una minoranza infima della popolazione”. In larga parte il popolo italiano, magari senza entusiasmo, ci conviveva e ciò non deve stupire. Nel dopoguerra le gravi tensioni sociali e politiche che si scatenarono spaventarono molti, non solo capitalisti o alto borghesi, ma piccoli borghesi, commercianti, artigiani, coltivatori diretti e persino mezzadri. Il Partito Socialista decantava la rivoluzione russa e la dittatura del proletariato, nonostante le non certo rassicuranti notizie che arrivavano da quella nazione sulle condizioni di vita della popolazione.

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Dal 1919 al 1921 ci fu il cosiddetto “biennio rosso”, caratterizzato da occupazioni armate di fabbriche, scioperi aggressivi e violenze. Spavalderie che non portarono lontano, perché in realtà i socialisti erano estremisti più a parole che nei fatti. Ma si sa, in politica un estremismo chiama un altro e Mussolini cavalcò quello di destra con aggressività, con astuzia e con un linguaggio triviale che delegittimava la classe dirigente di allora, la sbeffeggiava. Innumerevoli gli episodi di violenza nei confronti degli avversari politici, non solo socialisti, perché in quegli anni si era venuto affermando anche un secondo partito di massa, cattolico, il Partito Popolare di Don Sturzo. Intimidazioni ce ne furono, ma anche significative aggregazioni da parte di chi prima non stava con Mussolini (socialisti, cattolici, liberali, intellettuali, sindacalisti). Per vincere Mussolini dovette, però, venire a patti con ambienti moderati che non si potevano definire fascisti e creare il cosiddetto “Listone nazionale” che nel 1924 ottenne, pur in un clima elettorale arroventato da soprusi e intimidazioni, più del 60% dei voti. Gli spianarono la strada, oltre alle titubanze della monarchia, le divisioni nel campo opposto dove Giovanni Giolitti e Don Sturzo non si potevano vedere e c’era una forte diffidenza di quest’ultimo per i socialisti, dai quali per altro era nato il nuovo Partito Comunista.

Italo Balbo, uno dei fascisti contrari alla discriminazione degli Ebrei

Ebbene, in quegli anni in cui si definiva l’ideologia e il programma politico del Partito Nazionale fascista vi fu spazio per l’antisemitismo, nel senso che fosse una delle caratteristiche del movimento come lo era per il nazionalsocialismo di Adolf Hitler (gli ebrei tedeschi erano considerati fra coloro che avevano contribuito alla sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale)? La risposta è no. Non erano antisemiti molti personaggi di maggior spicco del fascismo, come Giuseppe Bottai, Dino Grandi e Italo Balbo.  Anzi, non pochi ebrei italiani furono fascisti della prima ora, parteciparono alla Marcia su Roma e il loro consenso al fascismo proseguì fino all’emanazione delle leggi razziali del 1938. Vi furono figure di primo piano, come Aldo Finzi, Margherita Sarfatti (amante del Duce, il cui appoggio gli fu indispensabile per entrare negli ambienti della buona borghesia milanese), Renzo Ravenna, amico e collaboratore di Italo Balbo, podestà di Ferrara dal 1926 al 1938, e il banchiere torinese Ettore Ovazza. Quest’ ultimo fondò addirittura, e siamo nel 1934, una rivista “La Nostra Bandiera”, che intendeva “fascistizzare” tutta la comunità ebraica italiana.

La decisione del Duce di promulgare le leggi razziali per scimmiottare Hitler (mettendo poi in piedi la solita macchina propagandistica) fu, dunque, un atto insensato e stupido (per limitarci agli aspetti politici di una questione che ovviamente ha risvolti etici e morali). Anche perché l’Italia era allora profondamente cattolica e la Chiesa, tranne qualche sporadica eccezione di scarsissimo peso, fu decisamente contraria a quelle leggi, così come lo fu all’entrata in guerra a fianco della Germania. Mussolini dimostrò i suoi limiti di statista: la verità è che, al di là della sua capacità oratoria e propagandistica e della sua spregiudicatezza politica, era un provinciale, di scarsa preparazione culturale, dal carattere troppo impulsivo e collerico (nel suo paese natale, Predappio, quando era un adolescente veniva chiamato “el matt”). La sua caduta fu rovinosa e disonorevole. Con lui il fascismo divenne, come disse Balbo in una riunione del Gran Consiglio, il “lustrascarpe della Germania”. E, dopo l’8 settembre del ’43, il “servo sciocco” dei tedeschi, legittimando un’occupazione militare dell’Italia che portò alla persecuzione vera e propria degli ebrei e a una guerra fratricida con lutti e distruzioni.



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