Con il passare degli anni si va diffondendo, seppur gradualmente, la conoscenza sul tributo di sangue che la Chiesa cattolica ha pagato durante la Seconda guerra mondiale, sia ad opera del nazismo che del comunismo. Una conoscenza che nel secondo caso – i fedeli vittime del comunismo – è progredita anche più lentamente che nel primo, vista la più lunga durata dei regimi rossi, che si è tradotta in una più lunga coltre di silenzio o disinformazione su certi misfatti.
Uno spaccato di questa situazione è il caso di Stjepan Horžić (26 dicembre 1918 – 30 gennaio 1945), un giovane sacerdote d’origine croata, di cui oggi ricorre l’80° anniversario del martirio per mano dei partigiani legati al Partito Comunista di Jugoslavia (KPJ). Va precisato subito che non esiste, ad oggi, un riconoscimento formale del martirio di don Horžić, ma la documentazione su di lui permette di dire che fu ucciso proprio per la sua opera da sacerdote cattolico. È quanto emerge da un libro fresco di stampa di don Ante Zovko (Stjepan Horžić mučenik za Boga i Hrvatsku, ossia “Stjepan Horžić, un martire per Dio e per la Croazia”), di cui dà ampia notizia, con tanto di fonti a corredo, Petar Marija Radelj sul portale croato Vjera i djela (Fede e opere).
Tra le fonti a cui don Zovko ha attinto per il suo libro ci sono gli archivi di Stato della Croazia, gli archivi diocesani di Zagabria, Senj e Sarajevo (città nelle quali Stjepan Horžić fu seminarista) e gli archivi parrocchiali di quattro località (Mrkopalj, Ravna Gora, Kraljevica, Vrbovsko) in cui don Horžić esercitò il suo relativamente breve – poco più di tre anni – ma intenso ministero sacerdotale. Il volume riporta varie testimonianze, foto di album di famiglia e il lavoro di ricerca svolto dall’autore sui luoghi in cui ha vissuto Stjepan Horžić.
Quest’ultimo era stato ordinato sacerdote il 17 agosto 1941, all’età di poco più di 22 anni e mezzo. Il contesto storico era difficilissimo: pochi mesi prima, la Jugoslavia era stata invasa dai nazifascisti. E la resistenza agli invasori era complicata dalle frizioni tra le diverse etnie nei Balcani.
In tale contesto don Horžić si curò di essere fedele alla propria vocazione, esortando bambini, giovani e adulti a coltivare una vita di preghiera e osservare la morale cristiana. Devoto alla Madonna, invitava i fedeli a riunirsi il primo sabato del mese per pregare insieme il Rosario. Insegnava il catechismo e anche altre materie, dirigeva cori a carattere religioso, scriveva poesie – tra cui una pubblicata con il titolo di “Preghiera a Gesù Risorto” –, mostrava una particolare compassione per le ragazze-madri e i loro bambini, abbandonati al loro destino da soldati dediti solo al piacere. Esortava le donne a essere prudenti e non camminare con i soldati. Non portava armi e raccomandava ai giovani di fare lo stesso. In quanto a fatiche, non si risparmiava. Si trovò a esercitare il ministero contemporaneamente in tre parrocchie (Mrkopalj, Ravna Gora, Vrbovsko), con una trentina di chilometri di distanza tra i due estremi, che percorreva a piedi.
In breve, il suo ministero nell’altopiano del Gorski Kotar finì per essere considerato un ostacolo dai partigiani, che dal 1942 controllavano Mrkopalj, una delle parrocchie dove, come visto, operava don Horžić. A un certo punto l’Ozna – sigla che indicava il “Dipartimento per la protezione del popolo”, in pratica la polizia politica agli ordini del Partito Comunista di Jugoslavia, che a sua volta aveva in Josip Broz Tito il suo leader – decise di sbarazzarsi del giovane sacerdote, come risulta dai verbali dei membri della stessa Ozna e del KPJ. In una di queste note, dove don Stjepan Horžić non è mai chiamato per nome, si legge: «Il cappellano tiene sotto controllo sia le donne che i giovani, che vanno a cantare ogni giorno» (5 marzo 1944). Alcuni giorni dopo, il 30 marzo 1944, un altro verbale imputa a don Horžić una serie di “colpe”, come il fatto che esorta le donne a «implorare la fine della guerra», «distoglie il popolo dal Movimento di liberazione popolare» e, ancora, perché ritiene che «le donne non dovrebbero arruolarsi nell’esercito, che non dovrebbero tenere raduni e balli, e proibisce persino di indossare la pilotka», il berretto usato dall’Armata Rossa.
Nello stesso solco di questi rilievi specifici nei confronti di don Horžić, c’erano le note che la sede centrale dell’Ozna per la Croazia mandava ai suoi membri attivi nel Gorski Kotar, avvertendoli che i sacerdoti «stanno assumendo una posizione ostile e stanno lavorando contro di noi. Ciò si manifesta attraverso preghiere per la pace. Tutti questi gruppi descrivono la nostra lotta come comunista». Non a caso, don Horžić fu solo uno dei sacerdoti vittime del comunismo nella Jugoslavia di allora.
A finire nel mirino dell’Ozna fu anche la Congregazione Mariana, un sodalizio di fedeli nato nel XVI secolo all’interno della Compagnia di Gesù, radicatosi in vari luoghi e impegnato in opere di devozione e carità. Nel nostro caso, la Congregazione fu tacciata di essere una «organizzazione illegale di giovani Ustascia» (18 luglio 1944), «sotto la guida del cappellano» (9 agosto 1944), cioè, nella fattispecie, di don Horžić. Dai verbali risulta che l’Ozna tentò di infiltrare suoi membri nella Congregazione Mariana di Mrkopalj per cercare di bloccarne il «lavoro distruttivo» (19 agosto 1944). Un gruppo definito a chiare lettere come «nemico», con «un cappellano e 20 ragazze», che il sacerdote «induce a cantare, le critica per aver camminato con i compagni partigiani, impedisce loro di andare ai balli».
Il 17 ottobre 1944 don Horžić venne arrestato. Il 31 dicembre fu sottoposto a un processo sommario. Nonostante il fatto che da più resoconti stilati dall’Ozna nei mesi precedenti risultasse che il sacerdote aveva dichiarato che presto il popolo sarebbe stato liberato, i partigiani avrebbero vinto e la Germania avrebbe perso la guerra, la stessa polizia politica lo accusò del contrario, così da poterlo additare come nemico del popolo. La sua condanna a morte fu eseguita, tramite fucilazione, un mese più tardi – il 30 gennaio 1945 – a Delnice, dopo 105 giorni di prigionia e torture. Ma lui, tornato alla Casa del Padre ad appena 26 anni di età, perdonò coloro che lo avevano calunniato. E assicurò preghiere per tutti i suoi persecutori, dimostrandosi fedele a Cristo fino alla fine.
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