Il Tribunale di Pisa ha dato ragione all’azienda sul licenziamento di una dipendente che ha iniziato un percorso di transizione di genere. Secondo i giudici, non è stata dimostrata la discriminazione della ditta che ha motivato l’azione con ragioni economiche. Come riportato dal Corriere Fiorentino, al termine del primo grado del processo, è passata la linea dell’azienda che in aula ha dichiarato di aver saputo della volontà del cambio di genere solo successivamente al licenziamento, dovuto secondo la ditta solo alla soppressione per esigenze di bilancio della mansione che svolgeva.
Ma il contenzioso giudiziario proseguirà in Corte d’Appello a Firenze. La dipendente era stata assunta dalla ditta pisana nel 2023, con un contratto a tempo indeterminato, come tecnico impiantista specializzato, per 40 ore settimanali (per la ditta invece era addetta al controllo). Nel dicembre dello stesso anno, stando al resoconto processuale, era stata costretta a stare a casa, a causa di stress e ansia sopraggiunti per la situazione lavorativa a cui era sottoposta, e in particolare per i turni di lavoro molto serrati. L’attività lavorativa, a suo dire, infatti, si prolungava sempre, oltre l’orario previsto dal contratto, di circa trenta minuti la mattina, per carico e scarico merci, di due o tre ore la sera nel periodo di maggiore richiesta (maggio/ottobre) e di quattro ore il sabato. Sempre in quel periodo aveva iniziato il percorso medico assistito di transizione di genere e aveva avvertito l’esigenza di comunicarlo al datore di lavoro, mediante una riunione alla quale avrebbero dovuto partecipare anche gli altri dipendenti. Con una mail del 15 dicembre 2023 aveva comunicato il perdurare del suo stato di ansia e stress che la costringeva a rimanere a casa, e aveva richiesto, al suo rientro, una riunione per comunicare la sua scelta di intraprendere il percorso di transizione di genere anche per esprimere la necessità di avere spazi diversi in cui potersi cambiare. Ma tale richiesta, sempre secondo la sua versione, le era stata negata.
A gennaio del 2024 viene licenziata. Per i giudici nella mail mancherebbero i riferimenti al cambio di genere e soprattutto le prove testimoniali di alcuni colleghi avrebbero corroborato le tesi dell’azienda di aver saputo dopo il licenziamento della volontà di cambiare genere. Anche la prova fornita dai legali dell’ex dipendente, riguardanti un post apparso sui profili social della ditta, alcuni mesi dopo il licenziamento per motivi economici, non è stata giudicata valida. I giudici di primo grado l’hanno valutata “astratta” e “tardiva” perché sarebbe priva della documentazione di appoggio e presentata in ritardo. Tute questioni che ora passeranno al vaglio dei giudici della Corte d’Appello fiorentina.
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