Il terzo anno è resuscitato secondo Repubblica

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Era il 19 aprile 1978, tutti i giornali titolavano il sequestro di Aldo Moro con la foto in prima pagina del leader del partito democristiano, il viso scavato, l’espressione di rassegnazione mista a sconforto e tra le mani il giornale di Eugenio Scalfari. Era nata Repubblica, di nuovo.

A tre anni dalla sua fondazione il Regno di Carta, quando ancora non sapeva di esserlo, arriva a compiere il suo primo successo. Come comunicò lo stesso Scalfari nella prima riunione del giornale, che si tenne a dicembre del ’75, i capitali a disposizione per tre anni lasciavano spazio solo a due opzioni: arrivare a pareggiare il bilancio nel triennio o chiudere i battenti. Il primo e il secondo anno non promettevano bene e il bilancio arrivava a meno di centomila copie vendute. Poi l’impennata delle vendite grazie al caso Moro.

Una “smilza compagnia” nel 1976 aveva pensato bene, forse scommettendo, di abbracciare un progetto quasi impossibile, che contava sulle capacità di pochi giornalisti, ancora meno le firme autorevoli, tutti riuniti in un unico piano di un edificio a Piazza Indipendenza, vicino alla stazione Termini. Si lavorava in un ambiente spartano, senza postazioni fisse e solo un piccolo box destinato al monarca. Dalla sua corte – che si sposterà definitamente all’Eur in Via Cristoforo Colombo – Scalfari dirigeva la sua “Rep” che era per lui moglie, amante, figlia e madre.

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Scalfari/Caracciolo

Il primo incontro tra Scalfari e Caracciolo è nel ’52 quando erano poco meno che trentenni. Un’amicizia che costruisce le basi di un’avventura fuori dalle righe e di una corte a tutti gli effetti. E come una corte che si rispetti le sue cerimonie sono sistemiche, formulate. Tutti riuniti intorno al direttore alle 10.30. Capiservizio, responsabili dei vari settori, ma anche l’ultimo dei redattori poteva partecipare e intervenire. Perché “Rep” era un astro nascente e come tale è bene usare il pugno duro, si, ma tutti sono importanti, tutti sono il suo successo e le sue sconfitte.

Rivoluzionario nel formato che chiameremo tabloid – 6 colonne invece che le 9 canoniche racchiuse in 20 pagine vendute a 150 lire – Repubblica introduceva in prima pagina notizie non necessariamente politiche, pochissimo lo sport all’inizio e via la cronaca locale. La novità fu soprattutto l’eliminazione della terza pagina, quella dedicata alla cultura. Su questi principi iniziò a erigersi il quotidiano-partito che si tinge di rosso a partire dai primi anni quando, per decisione del direttore, la redazione si irrobustisce con l’assunzione di molti giornalisti della Pci e del partitone rosso.

L’idea di Eugenio Scalfari in unione, poi, con l’allora direttore dell’Europeo, Arrigo Benedetti, era rivoluzionare il giornalismo. Mai aveva dubitato della sua creatura, nemmeno quando erano tanti gli errori, i servizi imprecisi e i “buchi” che ci si illudeva di coprire con scoop spesso inesistenti. È il caso dell’assassinio del Procuratore generale Francesco Coco che uscì titolato come “I carabinieri sapevano dell’agguato”.

La “Repubblica di Barbapapà”

La “Repubblica di Barbapapà”, come la definisce Giampaolo Pansa, era giornalismo in trincea, quello di chi si faceva le ossa in un ambiente in cui il pericolo di venire assassinato come Walter Tobagi era alto, perché negli anni di piombo i giornalisti erano spesso bersagli e la scorta molti la rifiutavano. Ma erano altrettanto alti il morale e la passione e soprattutto l’informazione non era ancora un potere di pressione, se non altro fino alla minaccia Berlusconi nel 1989. Dopo Bettino Craxi, la guerra di Segrate aprirà al primo vero nemico del Regno di Carta, il Cavaliere, diventato proprietario della Mondadori e prossimo alla conquista del gruppo Espresso-Repubblica. O almeno così sperava.

Eugenio Scalfari però poteva contare sulla fedeltà dei suoi giornalisti e delle sue giornaliste, una corte dei vice di “Barbapapà” che ha reso Repubblica un regno che resiste ancora oggi nell’epoca del “solo journalism” in cui l’autore conta più della redazione a cui appartiene. Stupisce come un giornale privo di una città a cui appartenere, come invece è vero che il Corriere è di Milano o il Messaggero è di Roma, abbia avuto fin da subito un’identità più ampia, rappresentando un pensiero nuovo e rivoluzionario, senza un centro geografico preciso. Giornalisti uniti da un’idea più che da un luogo, un pò come i Mille di Garibaldi, soldati sgangherati sottratti alla loro terra da un’ideale e che solo sotto la guida di Garibaldi potevano funzionare. E un po’ Repubblica questo ce l’ha mostrato con un club di gentiluomini che oggi l’editoria non si sognerebbe più, taccuino alla mano, gettoni per chiamare e un registratore portatile.

La voce indipendente del panorama italiano

Le scelte editoriali, l’impegno politico e l’intento di sfidare il potere, facevano di Repubblica non solo un giornale, ma la voce indipendente del panorama italiano che il cambiamento ha sottratto alle sue origini. La crescente commercializzazione del giornalismo, l’evoluzione digitale e il successo dei social media nel ruolo di nuove fonti di informazione, hanno ridimensionato le aspettative e la passione per la professione. L’utopia di un giornalismo di qualità è sfumata dalla necessità di velocità delle notizie, il quotidiano è meno audace e più legato alla sostenibilità economica e agli interessi delle grandi concentrazioni editoriali.

Così mentre tramontano le idee e il tempo del Regno di carta, l’eredità di Eugenio Scalfari rimane ferma ad un giornalismo impegnato, al servizio dell’opinione pubblica, che intravede nel lettore non solo la possibilità di un’informazione tutta da consumare, ma la necessità di un legame alla base di una comunità impegnata nella riflessione e nel dibattito.

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