Si salvi chi può, sembra il piano B di Giorgia Meloni, convinta di salvarsi da sola se l’Europa affonda, di salvare l’Italia dall’uragano Trump, dai dazi che il capo della destra americana agita come una clava per piegare i suoi interlocutori. Il primo risultato del tycoon è stato la retromarcia del presidente colombiano Gustavo Pedro: Bogotà si riprende i migranti espulsi dagli Stati Uniti, dopo che aveva provato a chiudere i suoi aeroporti. Molto presto vedremo quanta paura avremo nel nostro Continente e come la presidente del Consiglio italiana potrà evitare di danneggiare i prodotti italiani.
Meloni fa la sfinge per il momento. Ha parlato di tutto nel suo viaggio a Gedda e nel Bahrein. Non una parola su come conciliare concretamente l’interesse americano con quello dell’Unione europea. La presidente del Consiglio ha la sensazione che andrà a finire male, ma lei prepara il piano B, appunto, una via d’uscita tutta nazionale. Come se fosse possibile modulare i dazi ai prodotti europei senza ricadute dirette anche nel nostro sistema produttivo. Come se l’industria tedesca dell’auto (una fissazione di Trump) non fosse interconnessa all’indotto d’eccellenza italiano.
La Germania è prima nella classifica dei grandi esportatori negli Stati Uniti: ottanta miliardi di euro di avanzo commerciale. Ma l’Italia è terza. Il nostro surplus commerciale è di quarantatré miliardi di euro. A Trump, come ha detto lui stesso, Meloni piace molto, per cui non si è sbilanciato su come si comporterà con l’Italia. Vorrà vedere come si comporterà lei con lui, quando si arriverà al dunque e sarà chiaro cosa faranno tutti gli altri governi dell’Ue. Da che parte starà?
Pensare di rimanere al riparo dentro una grotta non è possibile. Il Sole 24 ore ha scritto che «se si guarda al peso delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti in rapporto al Prodotto interno lordo, è possibile stimare che un dazio aggiuntivo del dieci per cento verso tutto il mondo, e uno del sessanta per cento sulla Cina, avrebbero sull’Italia un effetto di contrazione economica molto simile a quello che avrebbero sulla Germania».
Meloni si rende conto che il ruolo di pontiere rischia di sbilanciarla, di mettere un piede nel tratto scivoloso del ponte dove si svela da che parte sta. Perché è ovvio che c’è un interesse nazionale che passa per forza per quello comunitario. Se la premier pensa di salvare solo l’Italia è una pia illusione.
Prendiamo la questione decisiva della difesa, che sarà affrontata il 3 febbraio nel vertice informale dei capi di Stato e di governo, il primo banco di prova da quando Trump ha giurato. Si tratta di spendere di più in armi per garantirsi la propria sicurezza in maniera autonoma. L’Italia nel 2024 è ferma a una spesa pari all’1,5 per cento del suo Pil. Per centrare il due per cento, che era l’obiettivo precedente al secondo mandato di Trump, l’Italia dovrebbe trovare ulteriori undici miliardi di euro l’anno da destinare alla difesa.
Ma per l’amico Trump il due per cento è poco: ha lanciato l’iperbolica percentuale del cinque per cento. Per l’Italia è impossibile, tenuto conto che già per il tre per cento servirebbero trentadue miliardi aggiuntivi. Meloni pensa che l’Italia verrà esentata da questo enorme sforzo finanziario? Semmai dovrà aggrapparsi all’Europa, strappare il patto di stabilità, pregare in ginocchio di fare gli eurobond. Dovrà sperare che l’Unione europea parli con una sola voce, perché ballare da sola è un suicidio.
Sarebbe il caso che Meloni cominciasse a parlare di queste cose. Non c’è uno che si salva con la propria «scialuppa di salvataggio», come ha ipotizzato, in un editoriale su Libero, Mario Sechi, l’ex portavoce della presidente del Consiglio. Aggiungendo che nel loro recente incontro, Emmanuel Macron e Olaf Scholz sembravano «due damerini che mangiavano croissant alla crema mentre là fuori infuriava la battaglia». Dunque, scrive Sechi, è inutile resistere a Trump: «Giorgia Meloni tutto questo lo ha ben chiaro. Se l’Europa dovesse affondare (cosa che non si può più escludere, è crollato l’impero romano, figuriamoci l’Ue) almeno noi avremo una scialuppa di salvataggio».
Che fortunati che siamo, noi italiani, sopra questa scialuppa di salvataggio. Ma si rendono conto di cosa significherebbe l’affondamento della nave Europa? Forse se ne rende conto Antonio Tajani che ieri, a margine del Consiglio Esteri, ha detto che la guerra dei dazi non conviene a nessuno, le guerre commerciali portano danni a tutti. Ma poi anche lui getta la maschera, ricorda che nei confronti dell’Italia l’amministrazione Trump non ha avuto un atteggiamento aggressivo: «E se il buongiorno si vede dal mattino, anche nei primi colloqui che abbiamo avuto, Meloni con Trump e io con Rubio, credo ci siano margini per un buon dialogo con gli Stati Uniti».
È la via nazionale italiana al trumpismo. E chissà cosa diranno Meloni e Tajani quando a sedersi al tavolo dell’Ucraina ci saranno solo Trump e Putin, e non Zelensky e i rappresentanti dell’Unione europea. L’Italia neanche a parlarne: per l’omologo di Tajani, Serghei Lavrov, noi non possiamo partecipare al negoziato di pace. Ecco, Meloni, forte del suo presunto rapporto privilegiato con Trump, dovrebbe cominciare a dire come l’Europa dovrebbe parlare con una sola voce, quanto intende farsi carico del comune destino politico, economico e industriale. Oltre quello dei valori e dei diritti umani. Le scialuppe di salvataggio evocano il Titanic. Speriamo di non finire contro un iceberg nei pressi della Groenlandia. Su una scialuppa di salvataggio con in testa il cappello da cow boy del fratello di Elon Musk.
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