I quattro grandi assenti della Japo

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La saga ECM non è il caso di ripercorrerla, tantomeno di riepilogarla. Oltre mezzo secolo di storia arcinota, celebrata/contestata, caso più unico che raro di manicheismo discografico, per così dire, la creatura di Manfred Eicher è oramai un monumento sonoro che si estende per oltre mille album firmati da pressoché tutti i nomi che contano nel mondo della musica contemporanea. Idea visionaria di un ragazzo che voleva fare il musicista, quando quattordicenne si mise a suonare il contrabbasso, passando più da grandicello a lavorare alla Deutsche Grammophon come assistente di produzione, lavorando anche con Herbert von Karajan, e si può immaginare, anche se non provare, che il concetto di direzione totale e l’attenzione ossessiva per ogni dettaglio sonoro che gli sono propri, siano frutto proprio di questa esperienza. C’è un unico punto su cui detrattori e sostenitori di Eicher concordano: l’uomo incarna uno spirito imprenditoriale davvero ideale, schumpeteriano, mosso da una sorta di «distruzione creatrice» nel suo agire innovativo, fatto di geniali intuizioni, volontà di potenza genuinamente nietzschiana, tic e cura maniacale per le sue produzioni. Tutto iniziò il 24 novembre 1979, quando Mal Waldron entrò in sala d’incisione per realizzare «Free at Last» e da allora la storia è diventata infinita, inanellando innumerevoli perle e un buon numero di ninnoli superflui. La saga ECM è nota a tutti, inutile aggiungere altro. Sotto lo stesso segno nacque, o almeno rientrò nel medesimo spirito del tempo, l’altra etichetta che vide in qualche modo coinvolto Eicher, la JAPO, sincràsi per Jazz by Post, certo meno pomposa dell’acronimo ECM (Editions of Contemporary Music) ma altrettanto ambiziosa negli intenti. La JAPO operò dal 1970 al 1985 pubblicando in totale quarantuno album, ispirati ai medesimi principi di ECM quanto a rigore e qualità, ma in quegli anni si mostrò più incline a curiosare ai confini del jazz e oltre, laddove ECM privilegiava l’esplorazione del genere nelle sue forme più originali e libere. Val la pena di considerare se, oltre a von Karajan, Eicher non debba qualcosa, almeno oggettivamente, a un altro suo connazionale: Joachim-Ernst Berendt. Intellettuale, scrittore, musicista, creatore di eventi, organizzatore di concerti e produttore, Berendt è stato un visionario che anzitempo in Europa ha cercato di costruire dei ponti tra le culture musicali del pianeta, come testimonia per esempio la produzione di «Jazz Meets The World», la collana concepita al tempo in cui si occupava delle produzioni jazzistiche per la MPS. In ogni caso, Eicher non era ai tempi il principale responsabile dell’impresa. La JAPO nacque per iniziativa di un membro del triumvirato che aveva fondato ECM nel 1969, ovvero Manfred Scheffner, il socio di Eicher e Karl Egger, come si evince anche dalle note di copertina del succitato album di Waldron, dove appare nei crediti in veste di produttore. Due anni prima, nel 1967, Scheffner aveva avviato un servizio di vendita per corrispondenza di dischi jazz con sede nel negozio di elettrodomestici di Egger a Monaco. Il passaggio da attività commerciale a marchio discografico fu il passo successivo. Dei dischi pubblicati, ne fu responsabile Eicher per alcuni, ma molti furono prodotti da Thomas Stöwsand (1947-2006), violoncellista e flautista che aveva suonato con Just Music, formazione che firmò la seconda uscita ECM. Era entrato nel team di Eicher e soci nel 1970 per occuparsi della distribuzione e fu lui il regista dei tour degli artisti a sostegno dei lanci e per promuovere le vendite. Quando distolse del tutto l’attenzione dalla JAPO, nel 1983, iniziò il crepuscolo dell’etichetta, che venne chiusa appena due anni dopo e il catalogo gestito (più o meno) da ECM.

Fatto sta che la JAPO partì anch’essa con Waldron pubblicando nel 1971 «The Call» e iniziando subito dopo a esplorare i quattro angoli del mondo con musicisti come Stephan Micus, non a caso titolare di ben cinque album di quel catalogo, Edward Vesala, la coppia Jiří Stivín-Rudolf Dašek, gli OM, i TOK, l’allora Dollar Brand, oltre a una pattuglia statunitense di alto profilo (Barre Phillips, Tom van der Geld, Bobby Naughton e il citato Waldron) e alcuni altri connazionali come Manfred Schoof e una sfavillante Globe Unity. Il catalogo registra anche una presenza italiana, Enrico Rava, che firmò il delizioso «Quotation Marks». Non furono gli unici a registrare per JAPO un totale di quarantuno album, come si è detto, che faticosamente, un po’ alla volta (tra i tic di Eicher va ricordata la poca simpatia per le ristampe, per ciò che è obsoleto), alcuni in cd, altri in vinile, oppure solo in formato liquido, talora soltanto per il mercato giapponese, sono stati quasi tutti ristampati anche se oggi non tutti facilmente reperibili. All’appello però ne mancano quattro, confinati nella casella dei fuori catalogo dopo la pubblicazione originaria su ellepì. Eccoli nell’ordine della loro data di pubblicazione.

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Dollar Brand: alla ricerca delle radici universali

Islamico dal 1968, Abdullah Ibrahim – nato Adolph Johannes Brand nel 1935 a Città del Capo – continuò a firmarsi Dollar Brand per diversi anni, transitando lungo i Settanta con la doppia firma e finendo per lasciare alla storia quel nomignolo d’arte che aveva adottato per un’esibizione a Zurigo nel 1962. Era una delle innumerevoli tappe che lo vedevano far la spola tra Africa, Stati Uniti ed Europa, artista giramondo che nel suo percorso di formazione di illuminati ne trovò non pochi, a iniziare da Duke Ellington. Fu tra i primi a comparire nel catalogo JAPO con «African Piano», la seconda uscita della neonata etichetta e successivamente con «Ancient Africa», ma questo, purtroppo, è tuttora fuori catalogo. I due album documentano concerti registrati al Jazzhus Montmartre di Copenaghen: il primo nell’ottobre del 1969 e il secondo nel giugno del 1972. L’esperienza maturata in quel lasso di tempo trascorso si avverte, eccome, da ogni nota che trasuda. Non è quindi un doppione, «Ancient Africa», tutt’altro. È un album rigoglioso d’invenzioni, energico, ritmicamente avvolgente, a tratti tambureggiante per via di quel tocco percussivo che è cifra del suo pianismo, capace di esprimere con immediatezza anche strutture assai complesse, mescolando con grande abilità blues, boogie, stride e gospel, assieme alle musiche sudafricane, marabi, kwela, dando vita a una musica esuberante, epica a tratti, ricca di slanci lirici. 

Le facciate dell’album si compongono di due medley, il secondo con la coda di un bis (Air) che lo vede disegnare al flauto una melodia che pare emergere da un sogno ancestrale. Il primo lato parte con Bra Joe From Kilimanjaro, che apriva anche il concerto del 1969, mettendo così in luce la crescita dell’artista. La splendida melodia e il piglio innodico del brano si avvalgono di una profondità e di una luminosità superiori all’altra versione, quanto basta per accedere al tono festoso di Mamma, impregnato di umori della sua terra. È però il passaggio al più pacato Tokai a evidenziare il grado di alchimia sonora ottenuto col tempo, prima di dar vita a un’esplosione di gioia autentica in Ilanga, danza tra accordi che fioriscono da radici che non hanno confini. Qui Dollar Brand/Abdullah Ibrahim è davvero incontenibile. Il brano approda al più lirico Cherry e in conclusione alle prime battute di African Sun che sfuma e si dipana appieno sul lato B aprendo la seconda medley all’insegna del blues riportato a casa, per così dire, ovvero suonato all’ombra del sole africano, proprio come recita il titolo. Altrettanto dicasi per il successivo Tintinyana, affine per sensibilità e grazia nel divagare sulle forme della tradizione fino a trasfigurarle, donandogli una modernità abbagliante. Potrebbe bastare e invece ecco lo spettacolare swing di Xaba, una danza trascinante e ipnotica. Infine, dall’estasi alla meditazione, la comunione sonora di Peace – Salaam, quasi una preghiera e un invito a rilassarsi dopo tanto pugnare con i tasti. Figura ormai leggendaria, tuttora in attività (ancora questo mese anche in Italia), sebbene prossimo ai novant’anni, Abdullah Ibrahim era un formidabile artista già quando si chiamava Dollar Brand e questo disco è una testimonianza vibrante cui ridar voce.


Bobby Naughton: all’occorrenza anche fabbro

Vibrafonista autodidatta, nato a Boston nel 1944, da ventenne Bobby Naughton ipotizzava una carriera improbabile nel rock suonando l’organo in un oscuro complessino, i Mushrooms. Tramite loro si accostò alle avanguardie jazzistiche, ma per vie traverse. Fu l’ascolto dei dischi del loro manager ad aprire le porte della percezione al giovane Naughton, che così conobbe Albert Ayler, Paul Bley e gente simile. Vendette l’organo e si comprò un vibrafono, fece pratica, si trasferì a New York. Qui conobbe, tra gli altri, il clarinettista Perry Robinson e il contrabbassista Mario Pavone, coinvolgendoli nella propria etichetta, la Otic, creata nel 1969 e che subito diede alla luce due album. Il primo è «Nature’s Consort», registrazione di un concerto dell’omonimo quintetto capitanato da Naughton, autore di tutti i brani tranne uno di Carla Bley. Gli fece seguito nel 1971 «Understanding», il secondo degli oggetti smarriti in casa JAPO, perché fu stampato su licenza anche dall’etichetta tedesca. In scaletta brani registrati in studio e in concerto, quattro di Naughton e altrettanti nuovamente della Bley, a iniziare da quello eponimo posto in apertura. Ad affascinare Naughton era la concezione stessa delle composizioni di Carla Bley, scarne e al tempo stesso poderose, in grado di offrire materiali ritmici e tematici stimolanti per l’improvvisazione solistica. A iniziare dai suoi assoli, avendo a quel punto definito il proprio stile e preferendo un approccio pianistico al vibrafono che, come lui stesso sosteneva, è prima di tutto una tastiera. Austero, melodico, propenso a pause anche lunghe, silenzi che ridisegnano lo spazio sonoro, Naughton già allora dava la sensazione di essere al tempo stesso vigile, cerebrale e sognante, etereo. Understanding e il brano successivo, Austin Who, da lui composto, sono assai eloquenti in tal senso. Strappa la tela del sogno il bleyano Ictus, per il quale scende in campo il clarinetto quasi gorgogliante e chioccio di Perry Robinson, con Naughton impegnato al piano. In chiusura del lato A un’altra sua composizione, Snow, che tra ticchettii di piccole percussioni, il flauto carezzevole di Mark Whitecage e il clarinetto qui lunare di Robinson pare davvero annunciare una nevicata. Ancora un brano di Carla Bley ad aprire il lato B, Generous 1 con Naughton sempre al piano per riproporre l’arzigogolata architettura sonora della californiana. Da segnalare il notevole intervento all’archetto di Pavone. Segue uno dei momenti più belli del disco: il bleyano Gloria, ammaliante e serpentino nel suo procedere, elegante nello svolgimento. Chiude un dittico di originali. V.A. è la tela astratta che Naughton ha sempre immaginato e ripetutamente perfezionato, mentre rimescola le carte il conclusivo Nital Rock, con l’entrata in scena del clavinet che riagita lo spirito rock della sua gioventù e vede Mark Whitecage incontenibile al corno di bassetto. 

A metà degli Ottanta, Naughton, in preda allo sconforto per come gli andava la vita, mollò tutto e fece il fabbro per circa ventott’anni. Riprese a fare e pubblicare musica soltanto nel XXI secolo e vide la ristampa di quel gioiello intitolato «The Haunt» prima di andarsene nel 2022. Il tempo di ristampare «Understanding», invece, pare ancora di là da venire.


Lennart Åberg: altro che vecchia, cara Stoccolma

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Don Cherry non fu il primo e nemmeno l’unico jazzista del nuovo continente a trasferirsi a Stoccolma. Lì si era stabilito già nel 1968 il contrabbassista Red Mitchell, e fu con un musicista di tale statura che collaborò agli inizi dei Settanta l’allora trentenne Lennart Åberg (1942-2021), musicista di larghe vedute e sassofonista in possesso di tutti i fondamentali. Assieme a lui, un altro giovane musicista svedese prestava servizio da Mitchell: il pianista Bobo Stenson. I due maturavano e al tempo stesso fiutavano l’aria nuova che stava tirando nel mondo e arrivava fin lassù in Svezia. Åberg e Stenson diedero il loro contributo al cambiamento e lo chiamarono Rema Rama, una formazione completata da Palle Danielsson a contrabbasso e sulle prime Bengt Berger alla batteria, in seguito sostituito dallo statunitense Leroy Lowe. Al centro di quel progetto sonoro il crossover tra culture musicali diverse: da un lato il jazz dall’altro musiche tradizionali africane, asiatiche, balcaniche, quella che anni dopo si sarebbe siglata come world music. Una visione musicale che si addiceva alla mission della JAPO (si è detto di Micus), e difatti l’etichetta tedesca produsse il loro primo album «Landscapes» (1977). Nello stesso anno Åberg registrò a suo nome un altro disco, il terzo grande assente tuttora nel catalogo JAPO: «Partial Solar Eclipse», lavoro spiazzante, considerata la musica dei Rema Rama. Lo si capisce già dalla differenza d’organico: ben venti elementi, inclusi Stenson, Danielsson e Lowe, ovvero i Rema Rama del primo disco. Un ensemble alle prese con una suite epica, suddivisa in sei parti, che spazia da un jazz modale poderoso, svolto a gran ritmo, allo swing tipico delle big band di altri tempi, mescolando il tutto con aromi vari, ora tropicali (il primo brano con le percussioni di Okay Temiz), ora in stile che si direbbero Motown (l’intro della terza parte, per esempio); talvolta il tutto suona come a commento di un noir (per esempio, l’accompagnamento della sezione fiati nella seconda parte della suite), talora vengono i mente i Centipede (l’avvio sontuoso della quarta parte). 

Un disco stupefacente per concezione ed esecuzione, ammirevole per le masse orchestrali in movimento e per vari pregevoli assolo, a iniziare da quelli di Åberg, disinvolto tanto al tenore quanto al soprano e al contralto lungo l’intera suite. Si fa valere da subito, con un saettante assolo al soprano nella prima parte. Lo si ammira ancora al soprano nella quarta parte, in cui dà il cambio a uno spettacolare assolo al baritono di Erik Nilsson, questi altrettanto incantevole al clarinetto basso nella quinta parte. Tra gli interventi solistici, si mettono in bella evidenza anche Stenson (nella terza parte) e il chitarrista Jan Tolf in quella conclusiva. Spettacolare infine, il (doppio) giro di basso a opera di Danielsson e Stefan Brolund al basso elettrico nella prima sezione.

In seguito Åberg sarà spesso al lavoro in casa ECM, per esempio in «Odyssey» di Terje Rypdal, proseguirà con i Rema Rama e un’altra formazione di etno-jazz (con Temiz), gli Oriental Wind o con big band, mentre con il tempo questo disco ha continuato a guadagnare in freschezza. Magie del Nord, ma ne servirà una davvero potente per ristamparlo.

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Peter Warren: in cerca di solidarietà

L’ultimo dei fuori catalogo JAPO, «Solidarity» (1981) del contrabbassista Peter Warren (1935-2022), è da ritenere tra le cose migliori della casa tedesca. Lui, coetaneo di Abdullah Ibrahim, arrivava dallo Stato di New York. Approdò in Europa all’alba dei Settanta prendendo a frequentare musicisti come Edward Vesala, Rolf Kühn e Albert Mangelsdorff. Prima di sbarcare nel Vecchio Continente lasciò una testimonianza del suo talento in patria, registrando nel maggio 1970 una favolosa seduta cui parteciparono altri tre contrabbassisti, Dave Holland, Glen Moore e Jamie Faunt e tre batteristi, Barry Altschul, Steve Hass e Stu Martin («La mia idea originale era un quartetto di contrabbassi con percussioni», scriveva nelle note di copertina) cui si aggiunsero John Surman e Chick Corea, poiché, prosegue Warren «John e Stu erano in visita a New York e Chick, Barry e Dave (che in seguito formarono i Circle) erano nel loft in centro dove andai a prendere Barry». Morale, si presentarono tutti e nacque «Bass Is», poi pubblicato dalla ENJA. Tornato a New York nel 1974, Warren entrò a far parte del giro di Jack DeJohnette, registrando per la Prestige «Cosmic Chicken» (1975) e per ECM «Special Edition» (1980) e «Tin Can Alley» (1981). Fu in occasione di quest’ultimo album (e relativo tour) che conobbe il sassofonista John Purcell, che coinvolse con DeJohnette nel suo album per la JAPO in quintetto, completato dal chitarrista John Scofield e sul primo lato dal trombonista Ray Anderson. Anche il brano d’apertura arrivava da «Tin Can Alley»: Riff-Raff. La mossa geniale di Warren, che ne era autore, fu di lasciare tra le quinte Purcell (e sé stesso), sostituendo il clarinetto basso e furente di Chico Freeman con un intervento ragionato e quasi minimale di Scofield e lasciando tutta la prima parte al suono pastoso del trombone di Anderson, che si esibisce in un assolo scoppiettante, energico e trascinante. Quanto a Purcell, il suo contralto sprizza scintille nella seconda parte con la medesima tensione della versione precedente, guadagnando però in linearità anche nei momenti più convulsi del suo assolo. 

Peter Warren
Peter Warren

Ma lo scoppiettante post-bop non va oltre, perché a partire dal brano successivo, l’eponimo, le atmosfere si fanno più oscure, meditative. A far da protagonista è ancora il trombone di Anderson che si innalza sul passo dolente, quasi da marcia funebre, tenuto dal quintetto, il quale via via dà vita a un canto vibrante, emozionante, quasi bandistico e infine parossistico. Sul secondo lato,è di scena il quartetto e il testimone passa a Purcell. Si parte con una ballad, Mlle. Jolie, di insolita dolcezza, così come è inusitata qui la performance di DeJohnette al piano che concorre a sottolineare il lirismo del brano. Sempre solida la presenza di Warren, misurato Scofield e quanto mai carezzevole Purcell al soprano. Il successivo Lisa’s Tilt riagita le acque sostenuto da un autorevole drumming che tiene le fila del tutto e disturbato da un assolo di contralto oscuro e affilato. All’atmosfera inquieta si allinea anche Scofield e infine tutti dopo aver riafferrato per un istante il tema si lasciano andare a una libera, guizzante improvvisazione. Chiude una miniatura per contrabbasso e violoncello, I Remember Stu, omaggio di Warren al defunto Stu Martin. Che disco: lo salvi chi può! Peccato che nel frattempo anche Warren sia scomparso, nella totale indifferenza del mondo del jazz, lo scorso anno.

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Una nota a piè di pagina: a questi quattro lp ne andrebbe aggiunto un altro intestato al quintetto di Manfred Schoof. Il trombettista di Magdeburgo incise tre album per la JAPO: «Scales» (1976) «Light Lines» (1978) e «Horizons» (1980). Nel 2009 furono ristampati in un doppio cd ECM intitolato «Resonance», ma senza due brani di «Horizons», The Abstract Face of Beauty e Sunrise. Un quarto d’ora di musica, fa niente, si dirà. Solo che sui due cd era rimasto spazio sufficiente a farli entrare tutti quanti. Chissà com’è andata.

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