di Giuseppe Gagliano –
Guardando alla storia dell’esplorazione spaziale, si scopre che, nonostante l’enfasi sulle imprese scientifiche e civili, come la celebre corsa alla Luna, le motivazioni principali sono sempre state di natura militare e geopolitica. Dopo la Seconda guerra mondiale lo spazio è diventato il nuovo campo di battaglia delle grandi potenze, uno strumento di dominio globale. In questo contesto, l’Europa ha cercato di costruirsi un ruolo autonomo con il programma Ariane, ma oggi sembra destinata a un inesorabile declino.
Non si può parlare di spazio senza riconoscere il ruolo degli Stati Uniti, che hanno costruito un’egemonia senza pari, consolidata da anni di strategia e innovazione tecnologica. La nascita del sistema GPS, ad esempio, ha garantito agli americani una capacità unica di proiettare potere ovunque nel mondo, senza dipendere dalle infrastrutture locali. Una conquista apparentemente innocua, ma che ha permesso agli Stati Uniti di intervenire militarmente con una precisione e un’efficacia ineguagliate.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno segnato un ulteriore spartiacque. Da quel momento, la dottrina americana si è formalizzata in un obiettivo chiaro: impedire l’accesso allo spazio a chiunque potesse rappresentare una minaccia, inclusi Cina e Russia, senza dimenticare i “vassalli” europei. Questa politica, definita “Space Dominance”, ha spinto gli Stati Uniti a concentrare i loro sforzi sulle applicazioni militari, abbandonando in gran parte il mercato civile. Nel frattempo, l’Europa, apparentemente al sicuro nel suo ruolo di leader nei lanci commerciali, si è adagiata sugli allori, incapace di vedere le tempeste all’orizzonte.
Con l’avvento di SpaceX però lo scenario è cambiato radicalmente. Elon Musk, inizialmente considerato un outsider, ha rivoluzionato il settore, riducendo i costi dei lanci spaziali in modo drastico grazie alla tecnologia dei razzi riutilizzabili. Mentre l’industria europea si concentrava su Ariane V, un razzo eccessivamente costoso e sovradimensionato rispetto al mercato, SpaceX costruiva un modello di business basato su efficienza e innovazione. Ariane V, nonostante fosse tecnicamente affidabile, si è rivelato un fallimento commerciale, incapace di competere con i costi molto più bassi di SpaceX.
L’introduzione di Ariane VI avrebbe dovuto rappresentare una rinascita per l’industria spaziale europea, ma i ritardi e i costi crescenti ne hanno compromesso il lancio. Previsto per il 2025, Ariane VI sembra già obsoleto, incapace di competere con i razzi riutilizzabili di SpaceX sia in termini di prezzo che di frequenza dei lanci. L’Europa, con un massimo di 11 lanci all’anno, è ormai fuori dai giochi rispetto agli oltre 180 lanci previsti da SpaceX per il 2025.
Il declino europeo non si limita ai lanciatori. Anche l’industria dei satelliti, un tempo fiore all’occhiello del continente, è in crisi. Con l’ascesa di costellazioni come Starlink, l’Europa si trova a dover competere con un modello che combina economia di scala e innovazione tecnologica. Elon Musk, con i suoi oltre 7mila satelliti già in orbita, possiede oggi più satelliti operativi di qualsiasi altra nazione o consorzio al mondo. In risposta, l’Europa ha lanciato il progetto IRIS, che prevede una costellazione di appena 300 satelliti. Un numero irrisorio se confrontato con le migliaia di unità programmate dagli Stati Uniti e dalla Cina.
Le conseguenze sono già visibili. Airbus Defense & Space e Thales Alenia Space, i due principali attori europei nel settore satellitare, stanno affrontando perdite significative e massicci licenziamenti. Il deficit di Airbus, pari a 1,6 miliardi di euro nel 2024, è un segnale inequivocabile della crisi. Eppure, la risposta europea è sempre la stessa: fusioni, razionalizzazioni, tagli. Una strategia che non affronta il problema alla radice, ovvero la mancanza di visione e innovazione.
Nel frattempo altre potenze si preparano a sfidare il dominio americano. La Cina, con piani per costellazioni di decine di migliaia di satelliti, e la Russia, sebbene più cauta, stanno costruendo infrastrutture per competere nello spazio. Anche l’Africa, con un budget spaziale complessivo di 10 miliardi di dollari nel 2024, si sta preparando a entrare in gioco, mentre il Medio Oriente, a eccezione dell’Iran, resta ancorato a politiche subordinate agli Stati Uniti.
Questa stagnazione europea riflette un problema più profondo: un sistema burocratico e centralizzato che ricorda, per certi versi, le inefficienze dell’ex Unione Sovietica. Mentre gli Stati Uniti e la Cina lasciano spazio all’iniziativa privata, l’Europa continua a fare affidamento su progetti statali, spesso lenti e inefficaci. IRIS, con i suoi numeri bassi rispetto ai concorrenti, è solo l’ultimo esempio di questa miopia strategica.
Il futuro dell’industria spaziale europea appare cupo. Senza un cambiamento radicale, l’Europa rischia di diventare un attore irrilevante in uno dei settori più strategici del XXI secolo. Innovazione, investimenti privati e una visione più ambiziosa sono le uniche strade per evitare il tracollo definitivo. Ma il tempo stringe, e l’inerzia potrebbe già aver compromesso ogni possibilità di recupero.
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