i “giochi sporchi” del conflitto israelo-palestinese

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Da “Diorama”, numero 376 (Novembre-Dicembre 2023) – Dati, numeri e fatti riportati nel seguente articolo si riferiscono alla fine di ottobre 2023, poco dopo l’offensiva di Hamas in Israele e l’inizio dell’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza.

Che il conflitto tra palestinesi e israeliani avrebbe preso la piega illustrata dall’incursione di Hamas oltreconfine del 7 ottobre e dalle rappresaglie che, al momento in cui scriviamo – 16 novembre 2023 – sono ancora in corso, non era difficile prevederlo. La convivenza di due popoli profondamente diversi per etnia, cultura, religione, mentalità, tradizioni e modi di vita su uno stesso territorio, da entrambi rivendicato come proprio, è impossibile – la storia ce lo ha insegnato con un’ampia quantità di esempi. E tanto più lo è quando uno di questi popoli sottopone politicamente, economicamente e socialmente l’altro, da settantacinque anni, a uno stato di subordinazione quasi servile.

Nelle condizioni in cui si è sviluppato il rapporto fra le componenti araba ed ebraica entro i confini dello Stato di Israele, che la reciproca estraneità generi un’incompatibilità destinata a trasformarsi in odio, è – è sempre stato – nell’ordine delle cose. E che questo odio, che nei decenni si è manifestato senza soluzione di continuità sia da una parte che dall’altra – ma in un’innegabile asimmetria, con dominatori e dominati e con i primi dotati di una quantità di risorse (belliche, economiche, tecnologiche, politiche) tali da far prevedere la persistenza temporalmente illimitata dell’attuale egemonia – fosse destinato a sfociare, un giorno o l’altro, in una guerra bilaterale di sterminio lo si sarebbe potuto dare per scontato già molto prima della tragica svolta delle ultime settimane.

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È questo dato di fatto a rendere ozioso, e in molti casi ipocrita, ogni dibattito sulla soluzione da dare allo scontro in atto, evocando l’ipotesi dei “due Stati” o altri espedienti rappezzati tenuti insieme da auspici di pace tanto accaloratamente retorici quanto inefficaci. Che ai politici di vario colore e alle cosiddette “autorità morali” faccia comodo proseguire in un vaniloquio che perdura da decenni senza dare alcun frutto concreto, è comprensibile; ma chi affronta l’analisi degli eventi con una decente provvista di realismo non può farsi catturare dall’accattivante melodia di mantra destinati a sfociare, come sempre, in un nulla di fatto.

Ciò, beninteso, non impedisce affatto di interrogarsi, e di formulare congetture, sui motivi più immediati che possono aver portato al drastico surriscaldamento di una guerra che, dal 1947 ad oggi, non è mai cessata e, pur essendo stata punteggiata sin dall’inizio da episodi atroci – leggi soprattutto alla voce nakba, che rimanda al catastrofico esodo forzato della popolazione civile palestinese dalle case e dai villaggi in cui viveva da tempo immemorabile e all’impunito massacro di Deir Vassin – non aveva finora raggiunto le punte impressionanti della fase a cui stiamo assistendo.

Che Hamas abbia deciso di compiere un’azione che puo apparire ancor più suicida che omicida allo scopo di suscitare una reazione in grado di sbarrare la strada agli “Accordi di Abramo“, ovvero alla strategia di formale riappacificazione con Arabia Saudita, Emirati e altri Stati della zona intrapresa da qualche tempo da Israele con l’obiettivo primario di isolare l’Iran nell’area mediorientale, è probabile. Anche se la motivazione ufficiale dell’assalto ai kibbutz e al rave party – infrangere, o almeno incrinare, il mito della invincibilità militare del nemico – può avere la sua parte di fondatezza. E la volontà di riportare all’ordine del giorno delle opinioni pubbliche, prima di tutto arabe ma anche del resto del mondo, una situazione che stava scivolando nel dimenticatoio, è un’altra ragione plausibile di un’operazione di una tale violenza che, per le sue caratteristiche, era inevitabilmente destinata a sollevare una veemente ondata di indignazione e condanne sul piano internazionale.

Comunque stiano le cose sotto questo profilo, la causa prima di questa fiammata di orrore – in entrambi i campi – è innegabilmente l’insopportabile condizione in cui i palestinesi sono stati costretti a vivere, o meglio a sopravvivere, soprattutto a partire dall’occupazione illegale di molti dei loro territori seguita alla “Guerra dei sei giorni” del 1967 (le cui responsabilità e la cui dinamica, malgrado la vulgata imposta dal fronte pro-israeliano, rimangono tuttora controverse). Ricordare che l’Onu ha decine di volte emesso risoluzioni per imporre ad Israele la restituzione di quei territori a chi legittimamente vi risiedeva e li amministrava, e che ogni volta Tel Aviv ha fatto carta straccia di quelle pronunce, senza per questo essere espulsa dall’Organizzazione o aver suscitato la nascita di “coalizioni di volenterosi” disposte a tentare di imporre con la forza il rispetto delle decisioni assunte, può apparire ripetitivo, ma è tutt’altro che fuori luogo.

Cosi come è utile, per una valutazione non umorale di ciò che sta accadendo nella striscia di Gaza, richiamare per l’ennesima volta l’attenzione sulla colonizzazione intensiva e inarrestabile dell’altro frammento dell’ipotetico Stato palestinese, la Cisgiordania, dove circa settecentomila coloni ebrei, provvisti di armi che non esitano a utilizzare in occasione di contrasti, anche per futili motivi, con i residenti, hanno contribuito a rendere ancor più realistica l’immagine della “prigione a cielo aperto” spesso evocata per descrivere ciò che la Palestina e oggi per i nuclei familiari che vi risiedono da generazioni.

Come persino testate giornalistiche occidentali filo-israeliane hanno riportato di recente, quei coloni sono oggi più che mai convinti delle loro buone ragioni e determinati a sfruttare le risorse di quei territori che, secondo la filosofia di uno Stato che non a caso si definisce costituzionalmente ebraico, cioè a fondamento esclusivamente etnico-religioso, sono state donate direttamente da Dio al loro (nonché Suo) popolo. Forti dei fucili mitragliatori che sono autorizzati e consigliati a detenere e, se è il caso, ad usare, sognano di compiere il disegno divino riprendendo progressivamente il completo controllo della Terra Promessa. 

È questo infatti il progetto che, dichiarato da pochi ma condiviso da molti dei suoi dirigenti e dei suoi cittadini, Israele sempre meno occultamente coltiva: giungere a quella che in qualunque altro scenario sarebbe chiamata pulizia etnica. Un progetto che ha bisogno di tempi accelerati, perché contrasta con le dinamiche demografiche degli ebrei e degli arabi che vivono entro gli attuali confini del Paese, con i secondi che si moltiplicano molto più dei primi.

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Per cancellare l’incubo di trasformarsi entro qualche decennio in una minoranza sul sacro suolo di Giudea e Samaria, non c’è che una mossa possibile: proseguire e perfezionare l’opera inaugurata nel 1947 e intensificata vent’anni dopo, costringendo prima i palestinesi di Gaza e poi quelli della Cisgiordania (lo ha suggerito proprio oggi un esponente del governo in carica) a varcare le frontiere e stanziarsi in Egitto, popolando altri campi profughi sul tipo di quelli già presenti in Libano, in Giordania, in Siria. Il gioco sporco condotto da Hamas il 7 ottobre è servito da innesco e pretesto ad uno non meno sporco, condotto da Israele da quella data in poi, che ha di mira questo obiettivo.

La posta in gioco in questa partita è talmente alta da giustificare ogni colpo basso, ogni eccesso, delle operazioni militari dei due fronti, e l’evidente sproporzione delle forze in campo fa capire – anche se non obbliga a giustificare – la logica indiscriminata della ricerca di bersagli da colpire adottata da Hamas: una logica che i movimenti di resistenza contro le occupazioni straniere e le lotte per l’indipendenza hanno sempre conosciuto, sebbene si faccia finta spesso di dimenticarsene in tutti quei casi che non sembrano opportuni ai loro apologeti. E nel contempo autorizza il Governo di Netanyahu a rendere, come è nelle tradizioni della casa, non solo il biblico “occhio per occhio e dente per dente”, ma dieci o cento volte il danno subito. Contando – dato essenziale – sul sostegno di alleati e protettori le cui indignazioni, ogni volta che Israele entra nel conto, diventano a geometria variabile.

Sotto questo profilo, quanto sta accadendo in Medio Oriente ha infatti scatenato in Occidente un’ondata di manicheismo che ha aspetti rivoltanti. Mentre ci si inorridiva di fronte alle immagini dei bambini uccisi per mano di Hamas, ci si è affannati a coprire o sminuire quelle dei coetanei dilaniati dalle bombe sganciate dagli aerei con la stella di David o dai proiettili scagliati dai carri armati dell’esercito israeliano. Si è condannato l’uso di ostaggi come “scudi umani” contro le incursioni di Tsahal, dimenticando di aver lodato un anno prima i combattenti ucraini del battaglione Azov che usavano allo stesso scopo centinaia di civili dopo essersi asserragliati in un’acciaieria.

Si è giunti perfino all’indecenza di scrivere che quelle delle migliaia di innocenti massacrati a Gaza fossero uccisioni “involontarie” e, in definitiva, inevitabili, allo stesso titolo degli attacchi a suon di cannonate ad ambulanze, ospedali e campi profughi (dove, il ritornello è noto, “si celano i milani di Hamas”). E si è glissato sull’esternazione del ministro israeliano che ha ammesso di ritenere l’uso della bomba atomica – che Israele non ha mai ammesso di possedere, per non doversi assoggettare ad ispezioni delle agenzie internazionali – “una delle opzioni sul tappeto” per risolvere una volta per tutte il problema della resistenza palestinese.

Malgrado la profusione di proclami sul “diritto di difendersi” dell’”unica democrazia della regione”, lo scontro Israele-Hamas ha in realtà fatto slittare le liberaldemocrazie occidentali sempre più verso il crinale dell’autoritarismo. Scomunicando, come sempre, ogni critica dello Stato ebraico e dei suoi Governi spacciandola per espressione di antisemitismo; condannando o vietando le manifestazioni pubbliche di sostegno alle ragioni palestinesi; sanzionando chi si rifiuta di liquidare come terroristi atti che appartengono semmai al novero dei crimini di guerra, i militi in servizio permanente effettivo della causa occidentalista hanno mostrato, per l’ennesima volta, che la libertà di espressione è per loro una variabile dipendente e secondaria. Quel che conta è presidiare, con ogni mezzo, il sistema di dominio su cui si fonda il loro potere.

Sotto questo aspetto, Israele è una pedina cruciale della strategia geopolitica degli Stati Uniti, così come lo è, su un altro versante, l’Ucraina nel suo attuale ruolo di ariete (camuffato da diga) anti-russo. Lo aveva ammesso con chiarezza Joe Biden: i due fronti fanno parte della stessa guerra. E un intellettuale israeliano ha rincarato la dose, sostenendo che l’esito di questo scontro sarà “decisivo per le prossime sette generazioni”. Quando gli orizzonti sono così smisurati, non c’è da sorprendersi di giochi sporchi, colpi bassi, violazioni di regole e convenzioni. C’è, semmai, da temere che qualcuno, facendosi scudo di parole come libertà e democrazia, sia disposto, pur di mantenere il potere conquistato a seguito di due tremende guerre mondiali, a scatenare una nuova Apocalisse.

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