Le “guerre per procura” perpetuano le crisi africane

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di Giulio Albanese

Nel vasto continente africano si sta di nuovo consolidando sempre più uno scenario che richiama il passato: quello delle “guerre per procura” (proxy war). La “procura”, nel caso specifico, consiste nella delega attraverso cui una determinata entità, solitamente uno stato (ma non sempre), tramite finanziamenti e mezzi sia palesi sia occulti, a partire dalle forniture di armi, conferisce a un alleato (può trattarsi di uno stato amico, ma anche di uno o più gruppi armati dissidenti) il potere di rappresentare i propri interessi ricorrendo ad attività di belligeranza. Com’è noto già durante la guerra fredda il confronto militare tra Stati Uniti ed ex Unione Sovietica si manifestò in vasti settori della macroregione subsahariana, dal Golfo di Guinea al Corno d’Africa. Basti pensare alla guerra civile angolana (1975-2002) o a quella in Mozambico (1975-1992). Va aggiunto che per quanto gli analisti tendano a ritenere soggetti della storia soltanto le grandi potenze, oggi il panorama geopolitico vede il coinvolgimento di potentati più o meno oscuri e non è affatto rassicurante. È evidente che molti interessi economici si celano dietro le quinte, soprattutto quelli legati alle commodity (materie prime).

Con la caduta del regime di Gheddafi (2011), l’implosione della Libia ha consentito la sporulazione di cellule islamiste, in parte preesistenti e nella clandestinità, che hanno contaminato vasti settori dell’Africa subsahariana. Sahel, settore nordorientale della Regione dei Grandi Laghi e Corno d’Africa presentano in particolare un nugolo di gruppi armati che rendono la situazione sul terreno sempre più grave. Basti pensare alle due anime di Boko Haram, originariario del nord della Nigeria: l’Islamic State West Africa Province (Iswap) e la Jama’at Ahl al-Sunnah li-l-Dawah wa-l-Jihad (Jas). La prima ha adottato la sigla Iswap (ora nota anche come Isis-Wa) per sottolineare la propria affiliazione all’Is, il sedicente stato islamico di origine mediorientale, cercando così di attrarre più proseliti e finanziatori.

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Pertanto, gli obiettivi di questa compagine armata, attiva nella fascia saheliana, sono di respiro internazionale, inserendo la ribellione Boko Haram all’interno del fronte globale jihadista. La roccaforte dell’Iswap si trova nei pressi del Lago Ciad e il gruppo ha una presenza permanente nella foresta di Alagarno che copre parte degli stati nigeriani di Borno e Yobe. Inoltre, le sue operazioni si spingono anche nei territori settentrionali dello stato nigeriano di Adamawa. Il Jas ha invece un’agenda più regionale, in quanto la propria azione bellica, particolarmente violenta, è quasi esclusivamente rivolta contro il governo nigeriano.

Nella fascia saheliana sono anche presenti altri movimenti eversivi di matrice islamista come il Jama’at Nusrat al-Islam wa al-Muslimeen (Jnim), che significa “Gruppo per il sostegno dell’Islam e dei musulmani”. Si tratta di un’organizzazione-ombrello sotto la quale operano diverse formazioni allineate con al-Qaeda. Tra di esse figurano, in particolare, Ansar al-Din, al-Qaeda nel Maghreb islamico, al-Mourabitoun, e Katibat Macina. Il Jnim è attivo in Mali, Niger e Burkina Faso. Un’altra rete terroristica molto presente sul campo è quella dello Stato Islamico nel Grande Sahara (Isgs) che rappresenta il ramo regionale del sedicente stato islamico (Is). È attivo in Niger, nel nord del Mali, così come in Burkina Faso e ha una relazione controversa con Jnim. Non a caso si sono verificati ripetutamente scontri tra le due formazioni che potrebbero indicare una contrapposizione d’interessi legata al controllo delle risorse nelle loro rispettive e confinanti aree operative.

Vi sono delle forti similitudini tra l’Iswap e l’Isgs, non foss’altro perché fanno riferimento allo stesso concetto di “stato islamico”. La differenza sta certamente nel fatto che nei territori sotto il suo controllo, l’Iswap si è impegnato a garantire la fornitura dei servizi pubblici di base, amministrando e imponendo imposte in modo sistemico e molto regolare. Come detto, la penetrazione dei gruppi jihadisti nella fascia saheliana è anche legata allo sfruttamento di quanto si cela nel sottosuolo. Emblematico è il caso del Tibesti, nel Ciad nordoccidentale ricco di oro a non finire.

Nel settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo, particolarmente nelle province del Nord Kivu e dell’Ituri, ricche di materie prime come il coltan, imperversa una galassia di gruppi armati tra i quali spiccano le Allied Democratic Forces (Adf) che nel 2018 hanno stabilito forti legami con l’Is. E cosa dire del Sudan dove ormai da quasi due anni è in corso una sanguinosa guerra civile? Il conflitto vede come protagonisti il comandante in capo dell’esercito sudanese Abdel Fattah al-Burhan e il suo rivale, il capo delle Forze di supporto rapido (Rsf), Mohamed Hamddan Dagalo, detto Hemeti.

Sul versante orientale del continente africano, invece, opera il movimento jihadista di al-Shaabab radicato da anni in Somalia. La situazione è grave anche più a meridione, in Mozambico dove dal 2017 formazioni jihadiste, che rivendicano la loro appartenenza allo Stato islamico, perpetrano massacri d’ogni genere nella regione settentrionale di Cabo Delgado. La domanda che sorge istintiva è la seguente: come si finanziano queste guerre, a parte i saccheggi che penalizzano le popolazioni locali? Stando ai rapporti di organizzazioni internazionali che monitorano il fenomeno si capisce che sono in gioco centinaia di milioni di dollari legati a frodi fiscali, rapimenti a scopo di estorsione, commercio illecito di materie prime (come petrolio, carbone, diamanti, oro, narcotici…) e valute digitali. Non solo: dietro le quinte figurano versamenti compiuti da facoltosi uomini d’affari, presunti benefattori – è un eufemismo s’intende – del vicino Medio Oriente, con la complicità a volte dei servizi di alcuni governi che mirano al controllo indiretto del continente.

Da rilevare che per molti anni le forze governative di questi stati africani interessati dalla piaga del terrorismo hanno fatto affidamento sui dispositivi militari occidentali, in particolare da parte della Francia e della stessa Europa. Ma con l’ingresso dei mercenari russi nel Sahel, le truppe francesi e le loro alleate sono state costrette alla ritirata per volontà delle classi dirigenti al potere. Si tratta di uno smacco che ha segnato il tramonto definitivo della Françafrique, quello spazio d’influenza che Parigi aveva mantenuto dopo la fine del suo colonialismo in terra africana. Gli Stati Uniti dal canto loro continuano ad essere presenti con Africom (United States Africa Command) con il compito di garantire la cooperazione militare con i governi locali anche se non è chiaro quale sarà il suo futuro sotto l’amministrazione Trump.

Un dato politico-economico che non può essere sottovalutato è il confronto tra gli Stati Uniti e la Cina in Africa. Emblematico è il caso del Corridoio di Lobito visitato a fine mandato da Biden. Si tratta della ferrovia di 1.700 km per il trasporto delle materie prime dal bacino minerario che comprende l’Angola, il settore meridionale della Repubblica Democratica del Congo e lo Zambia. Il progetto, finanziato dagli Usa per quasi un miliardo di dollari, con il sostegno e la piena partecipazione finanziaria dell’Unione europea, purtroppo, è antitetico alla ristrutturazione della ferrovia Zambia-Tanzania, finanziata dalla Cina, con lo sbocco sull’Oceano Indiano. Naturalmente le materie prime estratte in Zambia, soprattutto il cobalto, partirebbero verso i porti cinesi. Senza il necessario coordinamento queste aree geografiche dell’Africa australe potrebbero trasformarsi in futuro in un terreno di scontro non solo commerciale, ma di una vera e propria guerra per procura, proprio come in passato è avvenuto nelle ex colonie portoghesi di Angola e Mozambico.

Sull’Africa – è dunque più che evidente – si sta già giocando una grande partita. Le “guerre per procura” in Africa sono state finora una parte più o meno rilevante di quella “guerra mondiale a pezzi” che Papa Francesco ha denunciato per anni. Ma ora la situazione sta peggiorando e non a caso il Papa stesso nel recente tradizionale discordo annuale al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede ha parlato tout court di «… sempre più concreta minaccia di una guerra mondiale…». Certamente disegnare scenari futuribili è azzardato, ma per restare all’attuale contesto africano quanto appare chiaro è la militarizzazione del continente – poco importa se di matrice islamista o altro – per il controllo delle commodity.

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Di fatto, il fallimento dell’esternalizzazione della lotta al terrorismo da parte dell’Occidente a fianco spesso di eserciti africani sprovveduti, oltre alla competizione tra i grandi attori internazionali, sta portando a una radicalizzazione dei problemi che affliggono l’Africa piuttosto che a una sua soluzione. In questi casi si è soliti citare educazione e cooperazione internazionale allo sviluppo come retorica panacea ai mali del continente. Ma soltanto nuove classi dirigenti africane capaci di contrastare le logiche violente dei conflitti identitari potranno traghettare il continente verso un futuro decisamente migliore.



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