dietro la difesa del risparmio gli interessi degli amici di Meloni

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Il numero uno di Generali nega che l’accordo con Natixis consegni le chiavi della compagnia a Parigi. La polemica era stata montata dai quotidiani di Caltagirone, azionista di Generali, e cavalcata dal centrodestra preoccupato per la quota di Btp detenuti dalla società di Trieste. Ma tutti i grandi gruppi finanziari hanno già ridotto la loro esposizione al nostro debito

E Philippe Donnet infine sbottò: «È una bufala». Da giorni bersaglio delle critiche di alcuni soci di peso della compagnia, in conferenza stampa il numero uno delle Generali ha negato che l’accordo con il gruppo francese Natixis consegnerà a Parigi le chiavi della cassaforte di centinaia di miliardi di risparmi italiani.

«È a rischio la sovranità finanziaria del paese», si è letto di recente a proposito di un affare che vale circa 1.900 miliardi di capitali in gestione, da affidare a una nuova società partecipata al 50 per cento ciascuno dai due alleati. Poiché Generali contribuisce in modo rilevante a sostenere il peso del debito pubblico di Roma, tra l’altro comprando Btp, il timore è che in futuro l’influenza francese finisca per dirottare altrove gli investimenti del neonato colosso finanziario, un gruppo che sarà il primo in Europa nel settore dell’asset management.

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«Non c’è nessuna perdita di controllo», ha ribattuto Donnet, perché sarà il consiglio di amministrazione della compagnia a decidere come e dove investire i soldi dei propri clienti, «esattamente come succede adesso», ha aggiunto. Nessuna fuga in Francia, quindi, taglia corto il manager nato al di là delle Alpi, ma cittadino italiano (dal 2021 ndr), come ha ricordato, certo non casualmente, in un inciso del suo discorso. Parole che dovrebbero servire, almeno nelle intenzioni, a smontare la polemica cavalcata soprattutto dal costruttore Francesco Gaetano Caltagirone e amplificata nei giorni scorsi dalle testate del suo gruppo editoriale, a cominciare dal Messaggero.

«Guerra d’indipendenza» a Trieste

Caltagirone possiede il 6,9 per cento di Generali e da anni è critico, per usare un eufemismo, sulla gestione Donnet. L’amministratore delegato ha l’appoggio del principale azionista Mediobanca, col 13,1 per cento, e dei grandi fondi internazionali che controllano il 35 per cento circa della compagnia. Gli eredi di Leonardo Del Vecchio con il loro 9,9 per cento si sono fin qui schierati con il costruttore-editore romano, ma già nella primavera del 2022 la coppia di grandi azionisti uscì sconfitta da quella che Caltagirone definì «la guerra d’indipendenza delle Generali». Ad aprile è in programma l’assemblea dei soci che dovrà decidere se prorogare il mandato a Donnet, e in vista di questo appuntamento decisivo hanno già preso il via le manovre su entrambi i fronti.

L’impressione è che lo scontro sull’accordo con Natixis con annessi pensosi e preoccupati editoriali sui destini del risparmio italiano sia solo un antipasto della seconda “guerra d’indipendenza”, per usare le parole di Caltagirone. A sua volta, la battaglia di Trieste, dove ha sede il gruppo Generali, si inserisce in un contesto ancora più ampio, quello che vede il governo di Giorgia Meloni impegnato a favorire la nascita di un terzo grande polo bancario nazionale, dopo Intesa e Unicredit.

Un polo patriottico, per così dire, che privilegi le piccole e medie imprese nazionali, secondo gli slogan dei sovranisti al potere. Nei piani di Roma, il nuovo istituto tricolore sarebbe dovuto nascere dall’unione di Monte dei Paschi con il BancoBpm, che però a fine novembre è diventato il target dell’opa annunciata dall’Unicredit di Andrea Orcel. Sull’operazione aleggia la minaccia di uno stop almeno parziale da parte del governo con il ricorso al golden power.

Grandi manovre a Siena

Intanto, a metà novembre, il Tesoro ha ceduto il 15 per cento di Mps, scendendo all’11 per cento, alla cordata composta da BancoBpm (5 per cento), Caltagirone e famiglia Del Vecchio (3,5 per cento ciascuno). Solo un primo passo: nel giro di un paio di mesi l’editore romano e gli eredi del fondatore di Luxottica hanno rastrellato altri titoli sul mercato e ora, messi insieme, controllano il 15 per cento circa dell’istituto senese. È questo il nocciolo duro su cui conta il governo per mantenere in mani amiche il controllo di Mps, ma la partita decisiva si giocherà sul BancoBpm, la seconda gamba della strategia bancaria sovranista.

Giuseppe Castagna, a capo della banca sotto attacco di Unicredit, spera nell’intervento di Consob e Banca d’Italia per frenare l’offensiva di Orcel prima che l’operazione entri nel vivo a primavera. Negli stessi giorni andrà in scena anche l’assemblea di Generali. Il governo, a parole, vuol difendere il risparmio nazionale, preme perché siano innanzitutto gli italiani a sostenere l’enorme debito pubblico di Roma.

I sovranisti e i Btp

Che fine faranno i 37 miliardi di Btp in portafoglio alla compagnia di Trieste con l’arrivo del grande socio francese? La retorica sovranista alimenta i dubbi sulla strategia di Donnet, gli stessi dubbi amplificati dai megafoni mediatici di Caltagirone (e da quelli del centrodestra).

A ben guardare, però, la questione dei Btp ha poco a che fare con la nazionalità degli investitori. Negli ultimi anni tutti i grandi gruppi finanziari italiani hanno ridotto la loro esposizione al debito sovrano di Roma. Generali nel 2020 possedeva circa 60 miliardi di titoli di stato italiani, contro i 37 miliardi attuali. Banca Intesa è scesa dai 31 miliardi del 2021 ai 22,5 miliardi del 2023, quando Unicredit segnalava a bilancio 41 miliardi di obbligazioni governative tricolori, 2 miliardi in meno rispetto al 2021, ma 7 in più del 2022.

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D’altra parte anche Mps, una banca che era controllata dallo Stato, tra il 2021 e il 2023 ha visto ridursi il valore dei suoi investimenti in Btp e simili da 12,5 a 11 miliardi. E il BancoBpm, la banca che secondo Matteo Salvini rappresenta al meglio gli interessi del paese, un istituto che va salvato dagli appetiti di Unicredit? Anche qui i Btp viaggiano in ribasso: BancoBpm ne possedeva per 12,7 miliardi circa nel 2021, mentre nel 2021 l’investimento si è ridotto a poco meno di 11 miliardi. Una manovra non proprio sovranista.

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