Cinquant’anni fa, il 4 gennaio del 1975, se ne andava al Creatore, come avrebbero detto a Gagliano, Carlo Levi. Torinese, ebreo, medico, pittore e scrittore, poi parlamentare indipendente eletto nelle liste del Pci, volle essere sepolto dove era finito al confino, per dieci mesi, ad Aliano, in Basilicata; che nel suo capolavoro, Cristo si è fermato a Eboli, diventava appunto Gagliano. Aveva promesso ai paesani di tornare, e ci tornò, definitivamente. Sono stato qualche giorno fa ad Aliano, invitato dal poeta Franco Arminio per un evento culturale. E ho visto nel museo dedicato a Levi le foto del suo funerale. Ma ho visto soprattutto il paesaggio che lui descrive, i calanchi, e ti sembra di stare in una Cappadocia extraterrestre, sottratta alla storia e alla geografia. “In questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato ad Eboli”, così scrive Levi ma anche gli abitanti di Aliano non si consideravano cristiani, cioè veramente umani e del tutto civili. Ma abitanti di una preistoria rocciosa, tra mondo magico e mondo animale. Quella terra, quel mondo, negato alla Storia e allo Stato, scrive Levi, eternamente paziente, dove il contadino vive nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte. “Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia”. E prosegue: “le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria”.
Carlo Levi, antifascista, legato a Giustizia e libertà, fu mandato al confino qui, aiutò la popolazione da medico, e presto si legò alla gente del posto. Tra i confinati in Basilicata non c’erano solo antifascisti e comunisti, ma anche fascisti dissidenti, come Leandro Arpinati, federale di Bologna, sottosegretario all’Interno e poi mandato in esilio a due passi da Levi, perché dissidente.
Levi descrisse come pochi, senza sconti e senza disprezzo, le loro condizioni di vita, la loro primitiva visione del mondo, le loro superstizioni e le loro dicerie, i loro modi di vivere e le loro pietanze. Raccontò fra i primi l’incanto di Matera, il suo fascino “troglodita”, simile all’inferno dantesco ma “bellissima, pittoresca, impressionante”. Raccontò dei briganti e dello spietato, mitico Ninco Nanco, con la sua compagna, la brigantessa Maria a pastora: lui che strappava il cuore dal petto dei bersaglieri e dei piemontesi che catturava. E Levi era piemontese…Ma non ne scriveva col sussiego del settentrionale verso i terroni primitivi; c’era un’empatia di fondo, e a volte una umana solidarietà, che lo salvava da ogni atteggiamento di superiorità, e mirava a descrivere, non a deplorare. Eccoli, i briganti che tagliavano orecchie, lingue e nasi e chiedevano poi il riscatto ai signori e i piemontesi che tagliavano la testa ai briganti e poi la impalavano. Così si fece a sud l’unità d’Italia e la guerra contro l’Italia unita…
Mi sembrava di tornare a casa, al mio paese, quando leggevo in Levi la scansione del tempo in crai, pescrai, pescrille, poi pescruffo e poi maruflo, maruflone e maruflicchio, fino a comporre l’intera settimana. Crai e pescrai, come i nostri crà e pescrà, venivano dal latino cras e postcras, domani e dopodomani. Ma il nostrò crà qui si faceva crai, e per Levi era sinonimo di mai, come tutte le cose che si sperano invano del futuro. E poi la magia, le formule rituali, le fatture di morte, l’incantesimo per far morire i vermi nello stomaco dei bambini; le strane malattie, come quella dell’arcobaleno, che è poi l’itterizia, perché fa cambiare colore alla faccia. O le credenze, come quella dei tre angeli che sorvegliano la casa, uno si mette alla porta, uno sorveglia la casa e il terzo a capo del letto. O la paura di passare la notte dal burrone tra Grassano e Accettura, perché una triste sera, la banda musicale di Grassano reduce da un concerto ad Accettura, precipitò nel burrone: e a mezzanotte, raccontano i pastori lucani con reverenziale terrore, i suonatori morti si ritrovano e suonano le loro trombe.
Il fascismo è il convitato di pietra in quel paesaggio di pietra, assume il volto dei fascisti locali, delle autorità; a Levi sembra che il regime non abbia inciso in quei territori, li abbia lasciati a se stessi; si era fermato anche il duce a Eboli. In queste pagine si trova il germe dell’Ur fascismo di cui scriverà Umberto Eco quando Levi parla dell’eterno fascismo, che si sarebbe comunque perpetuato “sotto nuovi nomi e nuove bandiere”; ma qui più che Eco sembra di sentire Pasolini e il fascismo degli antifascisti. O Uomini e caporali di Totò.
Ma l’ideale, dice Levi, è uscire “dal giro vizioso di fascismo e antifascismo”. Come? Sorprendentemente Levi auspica la strada dell’autonomia, un insieme di infinite autonomie, un’organica federazione piuttosto che lo Stato unitario, centralista, piemontese e poi fascista. In modo che si “possa permettere la coesistenza di due diverse civiltà, senza che l’una opprima l’altra né l’altra gravi sull’una”. Una devoluzione in senso autonomistico, detta da un piemontese nel cuore profondo del sud, anche nel nome e per il bene del sud. Levi avrebbe dovuto fermarsi ad Aliano per altri due anni, ma con la conquista di Addis Abeba e la proclamazione dell’Impero fu graziato dal regime, come quasi tutti gli altri confinati. Quella gioia inattesa, confessò Levi, si volse in tristezza; non si affrettò a partire, anzi si attardò, “mi dispiaceva partire, e trovai tutti i pretesti per trattenermi”, inclusi a malati da accudire. Ma anche la gente del posto voleva che lui si sposasse con la bella possidente del posto, Concetta, e si fermasse ad Aliano. E alla sua promessa che sarebbe tornato scuotevano il capo: “Se parti non torni più”. E minacciavano di bucargli le gomme dell’auto per impedirgli di andarsene. Levi ci tornò da morto: non era un “meglio tardi che mai”, perché era ormai troppo tardi, erano trascorsi quasi quarant’anni; semmai “meglio sempre che tardi”. Il sud conquistato dal nord, aveva conquistato uno del nord, addirittura un torinese. Cristo non si era fermato a Eboli, ma il tempo.
La Verità – 4 gennaio 2025
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