Una palla azzurra mi insegnò che anche Napoli può vincere

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Lo so. Dovrei parlare del significato religioso del termine, quello che fa riferimento all’arrivo di Qualcuno che divide la Storia in due parti, il prima e il dopo la Salvezza. O, da laico, dovrei ricordare e raccontare le Grandi Attese delle ideologie, gli eventi indicati o previsti da grandi menti e da pensieri altissimi. Forse dovrei parlare delle rivoluzioni, i rivolgimenti politici e sociali preparati in silenzio e con sofferenza da gruppi più o meno vasti di personaggi che tramano nell’ombra, ciclostilando volantini e rischiando carcere e deportazioni per la realizzazione, a volte fallace e a volte meno, dell’obiettivo del Bene Comune.

Ma sono un boomer napoletano: e come tutti gli appartenenti a questa limitata classe di esseri umani, ho una sola risposta alla domanda circa quale avvento ho da ricordare e raccontare.

Una piccola, necessaria premessa: questa mia strana e non interpretabile città possiede una complicata identità, molto articolata e spesso contraddittoria. Qui, in uno spazio tutto sommato ristretto e a causa della densità estrema della popolazione (la maggiore del continente), trovate tutto e il contrario di tutto a distanza di pochi metri. Nessuno sembra essere d’accordo con nessuno, tutti ci percepiamo un po’ diversi dagli altri che guardiamo con bonaria e ironica diffidenza, senza tener conto dell’applicabilità a noi stessi delle ironie che snoccioliamo. E tuttavia alcuni elementi sono magicamente condivisi ed entrano a far parte di una sorta di comune denominatore, che serve appunto a riconoscerci tra noi sia sul territorio che nel resto del mondo dove ci siamo sparsi con allegra prolificità, appunto mantenendo qualche aspetto fondamentale.

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Uno di essi, tra i principali, è la squadra di calcio.

Contrariamente a molte altre metropoli, qui c’è una sola squadra. Questo dovrebbe mettere tutti d’accordo, ma non è così: probabilmente non esiste tifoseria più conflittuale, dialettica, litigiosa della nostra. Ma è anche vero che il Napoli, il suo andamento e il risultato della partita, il gioco che pratica e il destino che l’attende sono un argomento universalmente condiviso di sofferenza, esaltazione, amore e dolore. E, naturalmente, di conversazione pubblica e privata.

Ciò posto, se spiegate il significato della parola “avvento” e ne chiedete la traslazione nella vita vissuta, chi era senziente all’epoca vi parlerà quasi inevitabilmente della notte tra il 9 e il 10 maggio del 1987; quella che precedette il giorno in cui questa città, attraverso la sua squadra di calcio, apprese una notizia sconvolgente: che si poteva anche vincere. Che si poteva andare sulla prima pagina dei giornali di tutto il mondo per qualcosa che non fosse una strage di malavita, le montagne di rifiuti o il malaffare. Che c’era della bellezza sepolta sotto il malessere, e che questa bellezza poteva anche essere esibita.

Mi rendo conto, oggi sembra un’ovvietà; perché anche se i sondaggi sulla qualità della vita continuano a sbandierare un inferno statistico, la città è in cima alle classifiche dei flussi turistici, della crescita economica, dell’enogastronomia e della cultura, dell’arte e del divertimento. Ma quella notte, che svegli e spettinati aspettavamo che sorgesse un sole nuovo, Napoli era sepolta dal terremoto dell’Ottanta e dai suoi devastanti effetti, non ultimi i fondi per la ricostruzione confluiti nelle casse della camorra a finanziare le nuove piazze di spaccio. La città era in ginocchio, il capo chino, i giovani in fuga. Nulla sembrava poter cambiare una strada imboccata in maniera irreparabile.

E invece, inopinatamente e grazie a un Napoletano argentino che aveva fatto una scelta professionale folle e apparentemente incoerente, all’improvviso la città vinse.

I giorni successivi furono quelli della gioia incontenibile e incontenuta, della “fiesta mobile” che forse non è mai finita.

Ma quella fu la notte dell’Avvento, per noi. Fu la notte in cui capimmo che il risultato non è mai deciso prima di giocare la partita. E stiamo ancora giocandola, quella partita: perché se oggi i ragazzi non devono andare più via, se le grandi sfide sono accettate e se al futuro si può guardare con un minimo di ottimismo, e seppur considerando le tantissime ombre si può provare a illuminare tutto, il merito è di quella notte, tra il 9 e il 10 di maggio dell’Ottantasette.

La notte dell’Azzurro Avvento.

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