L’incredibile storia del Kalashnikov, raccontata da Roberto Saviano

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Il sogno di ogni inventore è che il nome della sua creazione diventi sinonimo del prodotto stesso. Un’icona universale che identifichi non solo l’oggetto ma anche il suo impatto nella vita quotidiana: jacuzzi, post-it, vespa, scotch, teflon. A Michail Timofeevič Kalashnikov, l’ingegnere e militare russo che creò (o come scopriremo aiutò a creare) nel 1947 il fucile d’assalto automatico più famoso del mondo è accaduto qualcosa di migliore o peggiore, a seconda dei punti di vista. Il suo AK-47 (Avtomat Kalašnikova) non è diventato solo sinonimo di fucile, ma ha reso la lotta armata accessibile a qualsiasi latitudine, portafoglio ed età. Un’invenzione letale che rende possibile a chiunque non abbia mai sparato un solo proiettile di sopravvivere in una guerriglia o di osare un colpo di Stato. Un’icona della morte che ha accompagnato il nostro immaginario: dalla guerra del Vietnam agli scugnizzi del film “Gomorra”, Marco e Ciro che giocano a fare i camorristi sparando con l’AK-47 in una spiaggia deserta. 

A raccontare la controversa storia di questo oggetto del male non poteva che essere la voce, la mente e la scrittura di Roberto Saviano. Dopo il grande successo di “Maxi: Il processo che ha sconfitto la mafia”, ritorna con una nuova serie podcast originale su Audible: “650 al minuto. L’incredibile storia del Kalashnikov”. Dieci puntate da cinquanta minuti l’una in cui indaga tutte le sfumature del male usando il mezzo che più esalta il suo talento di scrittore e sceneggiatore: «Il podcast mi permette di riprodurre una situazione ideale per un narratore: sedersi intorno al fuoco e raccontare. È l’atto più antico, il primo, che rende la scimmia nuda sapiens un essere umano. Il che non significa migliore degli altri esseri, ma dotato della possibilità di racconto. Il fuoco è il luogo intorno a cui ci si raccoglie per riscaldarsi, per proteggersi, perché spaventa e caccia i predatori. E sprigiona la possibilità della fantasia, innescando la possibilità di accedere all’esperienza, al racconto, alla parola. In qualche modo ho riprodotto quel momento nella mia testa, ogniqualvolta faccio un podcast. E questa storia, la storia dell’AK-47 del Kalashnikov è un pretesto: non è la storia del fucile, ma è la storia dell’uomo».

In questi anni hai raccontato tante sfumature del male; prima di scrivere questo podcast ti sei posto il problema di come e cosa raccontare per evitare le solite critiche perbeniste sul rischio di rendere intrigante la criminalità?
Non mi sono mai posto il problema etico. Ricerco dati, racconti, suggestioni, elementi di realtà. Non mi interessa decostruire la storia di un fucile; mi limito a raccontarne le contraddizioni, i risultati e l’orrore, senza tralasciare l’epica. Questo secondo me basta per offrire un quadro veritiero e permettere alle persone di empatizzare con la storia nella sua interezza. La capacità di relazionarsi al male è fondamentale per comprendere che non è qualcosa di esterno, ma parte integrante di noi e del mondo in cui viviamo. Parlare di un’arma in grado di uccidere seicentocinquanta persone al minuto, che può essere usata perfino da bambini, significa raccontare la storia dell’umanità stessa. 

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Perché ascoltare ora un podcast sul Kalashnikov?
Ascoltare storie che vanno da Stalingrado al golpe di Augusto Pinochet contro Salvador Allende significa approfondire tematiche spesso dimenticate o conosciute solo superficialmente. Chi ignora queste storie non comprende il proprio tempo, né la storia che sta vivendo o subendo. Non conoscere la vicenda del Kalashnikov significa non capire perché accadono determinati eventi o come interpretarli, nemmeno di fronte alle notizie del telegiornale. Questa arma ha influenzato profondamente ogni aspetto della nostra vita. E la tecnologia applicata alle armi è ciò che ha realmente cambiato il corso della storia umana, purtroppo in peggio. Chi possiede le armi vince, chi ne è privo perde. Ignorare le dinamiche legate alle armi significa non comprendere l’urgenza della pace e della politica del disarmo.

Nel dibattito sul Kalashnikov, quanto è giusto attribuire la responsabilità morale all’inventore e quanto invece ricade su chi la usa ogni giorno?
Kalashnikov diceva: “La mia responsabilità si ferma nella creazione di un oggetto. Chi preme il grilletto è responsabile morale, non io”. Il grilletto può essere premuto per difendersi da un’aggressione o per uccidere un innocente. È il pensiero che di fatto traccia anche la riflessione sulle armi negli Stati Uniti. Chi difende il libero accesso al mercato delle armi dice che non sono queste il problema, ma come si usano. Questa è una grande bugia, è una manipolazione logica.

Perché?
Dire che il responsabile è chi preme il grilletto è sicuramente corretto a livello individuale, ma a livello sociale bisogna considerare che se rabbia, disagio o crimine possono facilmente accedere a strumenti efficaci per uccidere, si contribuisce di fatto a spingere l’intera società verso la violenza. Certo, è possibile uccidere anche con un martello o con una lama, ma farlo è meno semplice e immediato rispetto a utilizzare una pistola o un fucile. S
e non ci fosse stato l’AK-47, ci sarebbe stato altro, ma l’AK-47 ha permesso con facilità di armare guerriglie. Con cento AK-47 puoi mettere su un colpo di Stato perché è un fucile che può usare un bambino o una persona che non ha mai sparato. 

Quindi il successo del Kalashnikov ha riscritto le regole della guerra?
Il Kalashnikov ha profondamente trasformato le regole della guerra moderna, non solo dal punto di vista tecnologico, grazie alla creazione di un’arma nuova e letale, ma anche per il suo impatto economico. La vera rivoluzione dell’AK-47 risiede nella sua accessibilità: è un’arma economica, facile da produrre, acquistare e mantenere, utilizzabile anche da persone non addestrate. Questa accessibilità ha reso l’AK-47 una forza dominante nei conflitti asimmetrici, dove la possibilità di formare guarnigioni, costruire eserciti o tentare colpi di Stato è diventata una realtà a basso costo. Nel podcast racconto un episodio emblematico: per intimidire la delegazione Ashanti, gli ufficiali inglesi spararono con una mitragliatrice Gatling sul fiume, generando un’onda altissima. Di fronte a quella dimostrazione di forza, gli Ashanti tornarono alle loro tende e si suicidarono, consapevoli che quella tecnologia avrebbe distrutto il loro popolo. Con il Kalashnikov la storia è cambiata perché questa arma non richiede grandi risorse o addestramento. Permette a chiunque di insorgere, di prendere il potere e di uccidere con facilità. Per contrastare un’arma così versatile e letale sono necessari mezzi pesanti come tank, carri armati e artiglieria. Nei conflitti africani, la dinamicità dell’AK-47 è stata un fattore decisivo: da quando quest’arma è arrivata in Africa, nessuno lì può più sentirsi al sicuro.

Nella terza puntata del podcast “Compagno AK-47”, fai capire come il successo del Kalashnikov sia frutto della sua ingegneria, ma anche di una sofisticata politica di marketing e condivisione dell’Unione sovietica. In che senso?
Il regime sovietico ha capito le potenzialità dell’AK-47, comprendendo fin da subito che si trattava di uno strumento di garanzia utile per il regime: permettere a chiunque di sollevarsi e ribellarsi ai paesi occidentali. I russi fecero una cosa inusuale per l’epoca: condividere con altri paesi le informazioni per migliorare la tecnologia di un’arma. Polonia e Cecoslovacchia, che sono ancora oggi produttori di armi di grande qualità, avevano tutti il brevetto e potevano contribuire alla produzione, al miglioramento e alla modifica dell’AK-47.

Nel podcast emerge chiaramente come la percezione del Kalashnikov sia cambiata nel tempo.
Per anni il Kalashnikov è stato il simbolo dei guerriglieri comunisti contro gli imperialisti occidentali e in generale dei popoli che lottano per l’indipendenza, finendo per esempio sulla bandiera del Mozambico. Anche l’African National Congress utilizza l’AK-47 come simbolo, così come le Farc, il gruppo guerrigliero comunista colombiano e il Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru in Perù. Il fatto che fosse un’arma facile da costruire, efficientissima, l’ha resa di fatto uno dei responsabili della vittoria della guerra in Vietnam contro gli americani. C’è un intero capitolo del podcast in cui racconto questo tema: l’M16 era un fucile mitragliatore che si inceppava spessissimo. I soldati americani giravano con queste bacchette di bambù, usandoli come strumenti per mettere in ordine i proiettili che si erano bloccati nella canna. Spessissimo i soldati americani buttavano l’M16 e prendevano l’AK-47, ma venivano poi puniti perché in guerra anche il rumore di un’arma fa capire subito qual è il tuo fronte, soprattutto nella giungla. Sentire un AK-47 rischiava di innescare fuoco amico. Poi nel tempo il Kalashnikov è diventato il simbolo del jihadismo, di Hamas ed Hezbollah, ma non solo.

Il Kalashnikov non è solo un’arma, è diventato anche un’icona estetica e culturale, soprattutto cinematografica.
Senza dubbio il cinema ha contribuito a rendere l’AK-47 un’icona, più di molte altre armi. Tra tutti, c’è un personaggio cinematografico che ha fatto la storia: Rambo. Pur essendo americano, e quindi associato a fucili come l’M16 o l’M60, la pesante mitragliatrice che domina in molti dei suoi film, ci sono momenti in cui utilizza proprio l’AK-47. Anche se lo impiega meno rispetto ad altre armi, bastano quelle poche scene in cui lo usa, come in First Blood (il primo film della serie di Rambo, ndr), per consacrare l’AK-47 a simbolo iconico. Il dittatore liberiano Charles Taylor volle  l’AK-47 perché lo vide in Rambo. Ma non credo che il cinema da solo sia sufficiente per contribuire al successo di un’arma. Assolutamente. È il contrario: il successo di un’arma è una realtà così forte da poi condizionare il racconto cinematografico. Certamente la sua caratteristica peculiare, pezzi di legno e pezzi di metallo, con questo caricatore “a banana” lo rendono un oggetto estetico. Lo dimostrano le lampade di Philippe Starck: sono esattamente un AK-47 con sopra il paraluce e la lampadina.

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Alla fine di questo podcast, che idea ti sei fatto Michail Timofeevič Kalashnikov?
La storia di Kalashnikov è quella di un uomo con grandi capacità, forse persino geniale, ma non costruì da solo il celebre fucile, questo è un mito. Certamente fu uno degli elementi chiave nel processo per la creazione dello strumento militare più iconico dell’Armata Rossa. E tutto questo pur avendo alle spalle una storia personale segnata dalla persecuzione del regime stalinista, solo perché la sua famiglia aveva qualche vacca, gallina e un appezzamento di terreno. Kalashnikov prveniva infatti da una famiglia di contadini kulaki. Una famiglia sana in cui il padre non pestava la madre e non c’erano problemi di alcolismo. Eppure il solo fatto di essere kulaki bastò al regime comunista per considerarli nemici del popolo. Nonostante questa tragedia personale, Kalashnikov divenne un simbolo della Russia, al pari della vodka. È l’emblema del rapporto complesso tra il cittadino russo e il suo governo: qualunque cosa accada, resti russo e obbedisci alla Russia. È come se Kalashnikov non si fosse mai ribellato al destino che il regime gli aveva imposto, accettandolo e trovando un modo per servire il paese che lo aveva oppresso.



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